Paure, contaminazioni e alterità. Da Bacone a Kapuściński

Luisa Simonutti

Maschere del teatro greco antico

“Men fear death”

“Men fear death, as children fear to go in the dark”. Gli uomini temono la morte, come i fanciulli il buio, scriveva il filosofo, uomo politico e instancabile sperimentatore Francis Bacon nelle pagine dedicate al tema della morte nella raccolta di suoi Essays or Counsels, Civil and Moral (1625). Paura e morte, due grumi concettuali strettamente connessi e che attraversano tutti gli esseri viventi e che sono parte costitutiva dei pensieri e delle emozioni del genere umano. Nell’Etica Nicomachea (III.9, 1117b7-16) Aristotele sottolineava che anche l’individuo più coraggioso aveva paura della morte e nell’Historia Animalium ripeteva più volte che tale emozione coglieva anche gli animali. Una paura senza storia, senza tempo. Una passione, una emozione innescata dall’iterazione con elementi esterni, un pathos, un processo di alterazione che può portare a grandi dolori.[1] Una emozione che pesa nella vita dell’uomo e che i versi di Lucrezio cercano di esorcizzare. (De rerum natura, libro III). Il connubio peccato-punizione, la paura del Giudizio universale e del diavolo: “una pastorale de la peur” una colpevolizzazione dell’Occidente che accomunò in una stessa visione del mondo cattolici e protestanti.[2]

Non si intende affrontare il tema della paura nelle sue varie nuances e nei suoi opposti come coraggio, eroismo ecc. o, in generale, le implicazioni e l’importanza della paura nella storia, delle quali si potrebbero moltiplicare all’infinito gli esempi.[3] Narrazioni e iconografia che si intrecciano nell’angolatura della storia politica dell’umanità. Analogamente il timor dei non fu peculiarità del Medioevo, anche se il legane tra paura, peccato e punizione o le paure legate a uragani, malattie, eruzioni vulcaniche e a eventi naturali in genere, segnarono particolarmente la prima età moderna.[4] Montaigne nei suoi Saggi candidava la paura ad essere un tormento così grande da sopravanzare la stessa morte.

Ma coloro che si son presi una bella paura dei nemici, non riuscireste nemmeno a farglieli guardare in faccia. Coloro che si sentono incalzati dal timore di perdere i propri beni, di essere esiliati, di essere assoggettati, vivono in continua angoscia e perdono la voglia di bere, di mangiare e di riposare; mentre i poveri, i messi al bando, i servi, vivono spesso allegramente come gli altri. E tutti quelli che, per non saper sopportare l’assillo della paura, si sono impiccati, annegati o precipitati, ci hanno ben insegnato che essa è ancora più fastidiosa e insopportabile della morte.[5]

 

Tuttavia, essa contiene ad un tempo aspetti di positività. Un tema che fu centrale in Hobbes e una risposta e discussione da punti di vista opposti in Spinoza e nella filosofia moderna.[6] Nella raccomandazione di Laerte “Best safety lies in fear”. (Hamlet, Act I, scene 3, line 43) e in innumerevoli esempi letterari e storici, è pienamente riconosciuta la sua utilità. Così in una trattazione attuale ad ampio spettro storico-politico Martha Nussbaum pur analizzandone criticamente la rilevanza ne riconosce anche un ruolo propulsivo anche se fortemente antisociale. [7] Né la scienza, o meglio la tecnica, secondo gli antichi e secondo Bacone, il quale riprendeva il mito di Dedalo, e i suoi necessari successi possono dare tutte le risposte ed esautorare l’individuo dalla scelta morale. La scienza necessita di un filo, il filo di Arianna.

Questa breve riflessione non intende ripercorrere gli aspetti sopra indicati ma trae come spunto d’osservazione le paure e le angosce che suscitano una malattia tanto pervasiva quanto intangibile come quella suscitata da un elemento impercettibile e indeterminato, come la malattia, il virus. L’interrogativo sorge intorno a una emozione che improvvisamente appare nel quotidiano delle nostre vite. Non tanto, dunque, un interrogativo intorno ai suoi molteplici aspetti storico-politici-psicologici o alle questioni della medicina sociale, quanto una riflessione sul se e come essa intervenga nel nostro vivere e abbia modificato o modificherà il nostro rapporto con l’altro.

“Paura blu” e “ blue devils”

Forse John Locke scelse gli studi di medicina quasi un espediente, come sottolineava Peter Laslett[8], per poter frequentare il Christ College di Oxford senza dover scegliere di far parte del clero. Certamente assistette alla grande peste che devastò Londra nel 1665. En evento di tragica eccezionalità: “Solite misure di igiene pubblica: pulizia dei canali di scolo, rimozione degli odori cattivi provenienti dai residui di granoturco e pesce e dalla concia; divieto di esporre e vendere vestiti usati. I cittadini più facoltosi si rifugiarono in campagna; i più poveri rimasero in cittaà a morire, difendendosi dall’infezione col tabacco fumato o masticato lasciando ai facoltosi i fumiganti a base di rari e costosi ingredienti composti da zolfo, salnitro e ambra, oppure da zolfo, luppolo, pepe e incenso, tutti efficaci come il tabacco o meno. Medici e studiosi discutevano intanto sulla natura e le cause delle epidemie, dividendosi come al solito tra l’ipotesi del miasma e quella del contagio. Fin dall’epoca della peste nera c’era stata una significativa minoranza di sostenitori del contagio quale causa maggiore della diffusione dell’epidemia, contro la maggioranza che la identificava nei miasmi dell’aria. Tra medici e intellettuali razionalisti inglesi circoloò un’idea nuova, che cioè il trattamento piuù incisivo contro la peste fossero gli agenti chimici e non le erbe aromatiche.”[9]

Anche allorché entrò a far parte dell’entourage del I° conte di Shaftesbury, nel 1667, Locke non esercitò professionalmente la medicina, ma sono ormai ritenuti centrali nel suo pensiero gli scritti e appunti su letture e tematiche mediche. Qui vale la pena sottolineare che Locke fu attento alle questioni del metodo e della rilevanza del contesto se non proprio della ricostruzione storica del manifestarsi della malattia.

All doctors up to the present century seem to me to have failed, because in the cure of diseases they have given little thought, or none at all, to the specific nature or particular ferment or fault (whatever in fact that is) of each disease, and considered solely the bile or phlegm or serum which are only the external symptoms of the diseases, and no more concerned with their specific natures than the type and richness of the soil is to the species of plants which may grow in it.[10]

 

Nel “Journal” del 26 giugno 1681, nell’appunto intitolato “Two sorts of knowledge” John Locke sottolineava che ci sono due tipi di saperi nel mondo, generale e particolare, fondati su due diversi principi ossia “true ideas, and matter of fact, or history”. Così è al secondo tipo di conoscenze, quello storico ed esperienziale che attiene la medicina: “whether rhubarb will purge, or quinquina cure an ague, is only known by experience; and there is but probability grounded upon experience, or analogical reasoning, but no certain knowledge or demonstration”. [11] Esemplare fu la documentazione della diagnosi e cura della malattia del I° conte di Shafetsbury che fu redatta dal filosofo. Una descrizione che evidenzia la paura del malato ma anche il timore dei medici di fronte alla procedura di un intervento di cui non era certo l’esito positivo sul paziente: “Putrefaction & a fistula being the two great evills that are to be feard & prevented in the long keeping of it open.” Infatti, il 12 giugno del 1668 il conte si sottopose ad un’operazione addominale altamente rischiosa per il drenaggio di un “ascesso” – una cisti idatidea al fegato. [12] Il tema della paura “our fear” percorre queste annotazioni. Avere “una paura blu”, una espressione utilizzata per descrivere una grande paura, ha un’origine medica. In particolare, evoca la malattia contagiosa e spaventosa del colera che causando cianosi quindi una diminuzione della presenza di ossigeno nel sangue, nel giro di poche ore provoca, tra i molteplici sintomi, anche un colore bluastro della pelle, delle labbra e delle dita delle mani e dei piedi. Cianosi e disidratazione rendono un aspetto spaventoso del viso e del corpo.

Nel volume Color: A Survey in Words and Pictures . From Ancient Mysticism to Modern Science, (tr.it. 1982, p. 8), Faber Birren ricordava che noi usiamo il colore per identificare gli oggetti: la frutta matura, gli ortaggi appassiti, i fiori, la nostra squadra di calcio. Il colore ci aiuta a diagnosticare le malattie e a riconoscere gli stati di collera, di paura, di imbarazzo. Il blu fu un colore negletto dalla tavolozza antica, il guado era considerato prerogativa degli stranieri del Medioriente, colore dell’esclusione e dell’alterità degli abiti e oggetti di cuoio dei Celti e dei Germani. Un colore che ritroverà il suo ruolo sacrale nell’arte medievale e rinascimentale, colore mariano per eccellenza, poi colore morale e delle idealità borghesi settecentesche.[13] È il colore che ritorna come rappresentazione melodica della tristezza della schiavitù, della melanconia della lontananza e della emarginazione degli afroamericani della Cotton Belt, delle angosce di Emma Bovary, personaggio letterario vestito di blu e che immagina un suicidio rubando al farmacista il barattolo blu dell’arsenico o della giacca blu dell’elegante Werther, suicida romantico: un colore, dunque, per rappresentare “la paura moderna di essere invisibili, di non lasciare traccia”.[14]

“I nfecting others”

Un timore, un malessere che pervade di fronte al rischio di un male futuro (Saggio sull’intelletto umano, l. II. cap. XX, §10.). Il rischio per la propria vita e per i beni materiali costituisce la ragione per la quale l’individuo si associa in un corpo politico preferendolo alla libertà dello stato di natura. Negli scritti politico-religiosi di Locke la metafora del corpo e della malattia connessa al governo della società e all’esercizio della tolleranza civile ritorna e frequentemente mette in luce l’intolleranza, la condizione dell’esclusione di credenti di altre fedi per la paura del contagio religioso.

Nel suo “Journal”, il 23 agosto del 1676 sottolineava che le leggi penali in materia religiosa difficilmente possono evitare le ingiustizie. Supponendo che tutti i dissenters siano considerati in errore e dunque fuori di senno (out of their wits), Locke domanda ai suoi interlocutori zelanti ortodossi se, allora, la legge impiccherà comunque tutti quelli che sono considerati fuori di sé. Incalza inoltre argomentando che se questi dissidenti fanno paura perché soggetti ad attacchi di rabbia allora si dovrebbe avere paura di tutti gli uomini, poiché anch’essi sono suscettibili dello stesso turbamento (distemper). Davanti alla paura degli zelanti che i dissidenti infettino gli altri, spargano il contagio, il filosofo ribadisce che se sono “perfect innocents, only a little crazed”, e se gli altri uomini “are infected but by their own consent, and that to cure another disease that they think they have, why should they be hindered any more?”[15] Nel 1692, nella “Terza lettera per la tolleranza”, in risposta agli scritti di Jonas Proast, Locke interroga il suo questionatore sulle ragioni per cui “gli ebrei, i maomettani e i pagani devono essere esclusi dalla società politica per paura che contagino altri ( for fear of infecting others)”.[16]

“Fear is not just primitive, it is also asocial” scrive Nussbaum e asserisce “Fear, indeed, is intensively narcissistic”[17] infine pur sottolineando che la paura porta con sé anche una componente prudenziale socialmente positiva, che costituisce una reazione emotiva di fronte al pericolo e contribuisce a guidare le scelte più protettive, “fear makes us want to avoid disaster”, tuttavia riconosce che non è in grado da sola di fornire le risposte, “but it certainly does not tell us how”.[18] Né sembra realizzarsi l’auspicio di Jacques Attali che “une pandémie majeure ferait surgir la prise de conscience de la nécessité d’un altruisme, au moins intéressé”, una pandemia che dovrebbe dare l’avvio a delle “peurs structurantes[19]. Scriveva nel 2009 rievocando le più recenti pandemie, come quella inglese della così detta “mucca pazza” e cinese dell’aviaria augurandosi che la politica europea non dimentichi e che promuova almeno un “altruismo necessario”, un altruismo obbligato dalla necessità di evitare catastrofi sanitarie e povertà.

Invece, come nelle antiche epidemie, colpa ed espiazione hanno il sopravvento ripetutamente; non più gli untori ebrei del Trecento e la volontà di espiare la colpa con i roghi ma la necessità comunque di superare l’angoscia dell’inconoscibile, dello sfuggente intangibile virus. La paura, emozione razionalizzatrice, paradossalmente, deve determinare il suo oggetto, costruire il suo nemico, individuare una materialità, un corpo, spesso il corpo dell’altro che nel corso dei secoli è stato il brigante, lo straniero, l’ebreo, la strega, l’eretico, il diverso, il pazzo ecc. Dunque, non una paura “a-temporale e naturale”, ma nella forma “storica e culturale” della paura dell’altro: emarginare l’altro per superare la propria angoscia.

Nella primavera del 2011una fiammata epidemica di e scherichia coli la cui origine rimase per lunghi mesi sconosciuta colpì alcune zone della Germania, la ricerca delle cause fu spasmodica e la storia sembrò ripetersi. Le cucurbitacee spagnole coltivate biologicamente furono immediatamente messe sotto accusa dalle autorità tedesche pur non essendoci prove scientifiche. Il sospetto e la paura si diffusero rapidamente e l’informazione ne amplificò l’effetto con danni molto rilevanti per l’economia agricola. L’episodio pandemico fortunatamente rimase limitato a un relativamente ristretto numero di vittime e di casi d’infezione, ma la necessità di individuare un responsabile esterno, straniero fu un riflesso che si osserva sistematicamente in caso di epidemie. Intervistato proprio su questo tema, il docente di medicina e scrittore Vincent Barras sottolineava come paura ed epidemia siano strettamente connesse e che:

Accuser l’autre est un réflexe vieux comme le monde, que cela soit un groupe social stigmatisé ou un peuple étranger. Après tout, une bactérie, c’est une sorte d’ennemi qui vous envahit, un peu comme une armée étrangère envahit un pays. Ce réflexe est donc quasiment inscrit dans la mémoire humaine. Ce qui vous envahit, c’est nécessairement l’autre, qu’il faut stigmatiser. Le concombre espagnol est passé sous cette loi, avant même qu’on ne prenne le temps de vérifier s’il était vraiment la source de la contamination.[20]

 

“Ferenci! Ferenci!”

Nel discorso pronunciato nell’ottobre del 2004 in occasione del conferimento dalla laurea honoris causa della Università Jagellonica di Cracovia, Ryszard Kapuściński, sottolineava che il concetto di altro è sempre frutto del punto di vista dell’uomo bianco, dell’europeo. Per lo scrittore, il tema dell’altro – the Stranger, the Other – fu un assillo e una passione. Raccontò che quando si trovava in un villaggio dell’Etiopia, fu attorniato da un gruppo di bambini che lo additavano divertiti gridando “Ferenci! Ferenci!” una parola che significa appunto “quello di fuori”, l’estraneo: per quei bambini l’altro era appunto Kapuściński.[21] Assurge Erodoto a guida storica ed emozionale, e insieme all’antico autore delle Storie si mette in cammino verso l’altro, esprime il desiderio d’incontrare l’altro. Per Kapuściński come per Erodoto la xenofobia “è la malattia di gente spaventata.” (p.14) Lo scrittore e giornalista ricorda come in particolare nell’età moderna e nel periodo illuminista cambi l’atteggiamento nei confronti di “quell’altro” e di “quegli altri” con l’incontro delle società extraeuropee e con “la rivoluzionaria scoperta che il non-bianco, il non-cristiano, il selvaggio, questo altro mostruoso e così diverso da noi, è anch’esso un uomo.” (p.18) Si scambiano merci, si scambiano idee. Alla paura dell’altro si sostituisce la curiosità di conoscerlo più da vicino. L’affermazione di Emmanuel Lévinas “io sono l’altro” dichiara che l’alterità è una questione etica che riguarda tutti noi, che deve strappare via da tutti noi indifferenze, diseguaglianze ed egoismo.

Già Erodoto, duemila cinquecento anni fa, citava nel suo libro centinaia di tribù, di credenze e di lingue nelle quali si era imbattuto o di cui aveva sentito parlare. Le elencava come dati ovvi, esistenti da tempi immemorabili.” (p. 37)

 

Un ricco panorama di popoli e di culture che l’Europa stenta ancora a riconoscere pienamente. Cittadini che si rivolgono alle proprie origini dopo il triste periodo della colonizzazione e “resuscitano le proprie culture.” (p. 32) Kapuściński sottolineava che non tutti si rendono conto che “la mappa del mondo è cambiata” e che la nuova mappa è “colorata, variopinta, ricca e incredibilmente complessa” (p.47). Lo scrittore conclude:

Se oggi diciamo che il mondo è diventato multietnico e multiculturale non è perché le società e le culture siano più numerose di una volta, ma perché parlano con voce sempre più autonoma e determinata, chiedendo di essere riconosciute e ammesse alla tavola rotonda delle nazioni”. (p. 75)

 

Le domande del presente

Il mondo esterno è diventato improvvisamente uno spazio ostile come già era accaduto in passati contagi e pestilenze. La paura, dunque, non solo è una “passione triste” ma è anche contagiosa? Come ridisegna l’altro questa pandemia? La pandemia interroga il nostro presente. I mezzi tecnici che servivano per unire persone lontane, divise da mari e continenti, le piattaforme elettroniche, gli stessi strumenti informatici, il web, ora servono per isolare, allontanare. La salute pubblica e la salute personale richiedono che in ogni momento della giornata in cui incontriamo l’altro, si debba attuare il distanziamento fisico. Ma la necessità di allontanarsi dall’altro, di coprire una parte del viso con la mascherina, implicherà un habitus a dissimulare le nostre espressioni e le nostre emozioni che sono strumento fondamentale per avviarsi sul cammino della conoscenza dell’altro come raccomandava Kapuściński?

Una “nuova e necessaria ragion di stato”[22] che induce e giustifica a trattare l’altro, qualsiasi altro, il prossimo evangelico, come un estraneo, uno straniero, un nemico? Un rischio sensibile, razionale ed emotivo di rallentare o cancellare quel processo empatico descritto da Edith Stein all’inizio del Novecento. L’atto empatico è per la Stein una “percezione interiore”, è il rendersi conto del vissuto dell’altro, dell’individuo con cui siamo in relazione, nella sua “concretezza e pienezza” mediante il mondo della nostra esperienza. Questa “percezione soggettiva dell’altro” possiede un valore conoscitivo. Ciò che l’autrice tracciava era infatti “il processo interiore concreto” mediante il quale percepiamo l’”esperienza” interiore dell’altro, ossia “la sua stessa personalità”. Empatia è “la via per accedere all’intera persona dell’altro”.[23]

Diventa dunque una necessità inevitabile raccogliere la raccomandazione di Mirelle Delmas-Marthy di una “créolisation par transformation réciproque”, un processo dinamico che consiste nel riconoscere, proteggere e promuovere, avvicinare e armonizzare la diversità delle espressioni culturali. Per conciliare l’universalismo dei diritti dell’uomo e il pluralismo delle culture, ossia pluraliser l’universel, la giurista propone due vie principali: – le percezioni sensoriali (udito, vista, olfatto, gusto e tatto) strumenti primari per una vera conoscenza delle diverse culture e – le rappresentazioni cognitive, cioè l’acquisizione di conoscenza attraverso la ragione, il discorso educativo, filosofico, economico, sociologico, etico e giuridico. “Quelle que soit la voie que l’on emprunte – sensorielle, cognitive ou combinée – plusieurs moyens se présentent à nous pour ordonner le pluralisme, sans le supprimer”.

Creoliser la notion d’humanité” è il compito che deve coinvolgere tutti e in particolare l’UNESCO, in particolare nel decennio internazionale in corso (2013-2022), per attuare oggi più che mai, davanti alle ciclicità pandemiche che hanno coinvolto e coinvolgeranno il pianeta, la Déclaration universelle de l’UNESCO sur la diversité culturelle , adottata all’unanimità nella Conferenza del 2 novembre 2001.[24] Delmas-Marthy conclude il suo convinto impegno:

Pour éviter à la fois le relativisme et l’impérialisme des valeurs, une dynamique interactive et évolutive est nécessaire. Le rapprochement des cultures doit être compris comme un processus, un mouvement qui incite à dépasser les métaphores fixistes (les droits de l’homme vus comme fondations, socles, piliers ou encore racines des diverses cultures) et privilégier la métaphore qui présente les droits de l’homme comme langage commun de l’humanité. Elle suggère trois processus dont l’effet dynamique est croissant : de l’échange interculturel (dialogue) à la recherche d’équivalences (traduction) et même à la transformation réciproque (créolisation).”[25]

[Online 08/05/2020]

 

[1] Diana Quarantotto, Aristotele: la psicofisiologia delle emozioni e l’ilemorfismo , in “Bruniana & Campanelliana”, XXIII, 2017, 1, pp. 183-200.
[2] Michel Grandjean, Quand l’enfer habitait le Moyen Âge. Ce qu’on doit à Delumeau , in “Choisir”, 31 mars 2020, https://www.choisir.ch/societe/histoire/item/3761-quand-l-enfer-habitait-le-moyen-age
[3] Delumeau, La paura in Occidente. Storia della paura nell’età moderna (Paris, 1978), Milano, Il Saggiatore 2018; Patrick Boucheron, Conjurer la peur. Essai sur la force politique des images. Sienne, 1338 , Parigi, Seuil, 2013; Samuel Sadaune, La peur au Moyen âge, Ouest France, 2013.
[4] Per ricerche sul tema della paura che tocchino i diversi aspetti si veda la rivista in libero accesso: “Governare la paura. A Journal of Interdisciplinary Studies” https://governarelapaura.unibo.it/index Per uno sguardo polisemico del lemma “Paura” si veda Accademia della Crusca, Grande dizionario della lingua italiana, http://www.gdli.it/sala-lettura/vol/12?seq=870
[5] Montaigne, Saggi, ediz. a cura di F. Garavini, Milano, Adelphi, 1966, 2 voll., vol.I, l.I, cap. XVIII.
[6] Remo Bodei, Geometria delle passioni. Paura, speranza, felicità: filosofia e uso politico , Milano, Feltrinelli, 1991. Si veda anche Francesco Cerrato, Potere e Governo della paura nella filosofia di Spinoza in “Governare la Paura”, (05/2008), (Periodico online).
[7] Martha C. Nussbaum, The Monarchy of Fear, Oxford, Oxford University Press, 2018.
[8] Peter Laslett, John Locke’s Medical Notes, in “British Medical Journal”, 1964, 1, p. 900, https://www.bmj.com/content/1/5387/900
[9] Carlo Venuti, La vita al tempo della peste, in “Quaderni guarnieriani”, “Pestiferus” a cura di C. Venuti, n.s. 6, 2015, pp. 1-74, p. 14. 
http://www.guarneriana.it/Archivi/BGSD/Files/file%20Quaderni%20Guarneriani/PESTIFERUS_compresso.pdf
[10] Medical Notes from Locke’s journals, printed in Dewhurst 1963. Citato in Michael Jacovides, Locke’s Image of the World, p.12. Published to Oxford Scholarship Online: February 2017, DOI: 10.1093/acprof:oso/9780198789864.001.0001
[11] John Locke, Political Writings, edited by David Wootton, Indianapolis, Hackett Publ. Company, 2003 (reprint), p. 261.
[12] L’intero manoscritto con una preziosa introduzione storica è pubblicato a cura di Peter R. Anstey and Lawrence M. Principe, John Locke and the Case of Anthony Ashley Cooper, in “Early Science and Medicine”, 16, 2011, pp. 379-503: p. 487, DOI: https://doi.org/10.1163/157338211X594759 Per un breve quanto brillante quadro sulle cure mediche nel Cinque-Seicento e sulla sanità pubblica si veda Carlo M. Cipolla, Il pestifero e contagioso morbo. Combattere la peste nell’Italia del Seicento , Bologna, Il Mulino 2012 (prima ed. inglese 1981) e Id., Miasmi e umori, Bologna, Il Mulino, 1989.
[13] Cfr. Michel Pastoureau, Bleu. Histoire d’un couleur, tr. it. Ponte alle Grazie, Milano, 2008; Roberta Locatelli, Attraverso il blu. Sulla percorribilità di una storia del colore , http://spaziofilosofico.filosofia.unimi.it/wp-content/uploads/2017/06/Attraverso-il-blu.-Sulla-percorribilità-di-una-storia-del-colore-Locatelli.pdf
[14] Riccardo Falcielli, Cromorama. Come il colore ha cambiato il nostro sguardo, Torino, Einaudi, 2017, p. 113.
[15] John Locke: Essays on the Law of Nature. The Latin Text with a Translation etc. by W. von Leyden, Oxford, Clarendon Press, 1954, pp. 274-275. Cfr. anche John Locke A Letter concerning Toleration and Other Writings. Edited and with an Introduction by Mark Goldie: https://oll.libertyfund.org/titles/locke-a-letter-concerning-toleration-and-other-writings#lf1560_head_013
[16] John Locke, Scritti sulla tolleranza, a cura di Diego Marconi, Torino, Utet, 1997, p. 376.
[17] Nussbaum, The Monarchy of Fear, cit., pp. 28-29.
[18] Ibid., p. 44. Sulla paura nella sua rilevanza politica si veda Corey Robin, Fear. The Histoy od a Political Idea, Oxford, Oxford University Press, 2004.
[19] Jacques Attali, Avancer par peur, in “L’Express”, 06 Mai 2009, https://www.lexpress.fr/actualite/societe/sante/avancer-par-peur_758721.html
[20] Peur et épidémie vont de pair , intervista a cura di Laureline Duvillard, in “SWI SWISSINFO.CH”, 09. Juin 2011, https://www.swissinfo.ch/fre/societe/peur-et-épidémie-vont-de-pair/30398062
[21] Ryszard Kapuściński, “L’incontro con l’altro come la sfida del XXI secolo”, in Id., L’altro, Milano, Feltrinelli, 2009 (I ed. polacca 2006), p. 71. Si veda anche Id., In viaggio con Erodoto, Milano Feltrinelli, 2005.
[22] Benché dedicato principalmente alle questioni di sanità pubblica legate all’HIV/AIDS, l’articolo offre spunti ancora utili su cui interrogarsi Noël-Jean Mazen, SIDA et MVIH. La pandémie, la peur et le droit, in “Sciences Sociales et Santé ”, VII-1, 1989, pp. 37-80, www.persee.fr/doc/sosan_0294-0337_1989_num_7_1_1118
[23] Cfr. Laura Boella, Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia, Milano, 2006, p. 12.
[24] Déclaration universelle de l’UNESCO sur la diversité culturelle , adoptée à l’unanimité par la Conférence générale de l’UNESCO, le 2 novembre 2001.
[25] Mireille Delmas-Marty, Créoliser la notion d’humanité, in “Le Courrier de l’UNESCO”, 2018-2 https://fr.unesco.org/courier/2018-2/creolizing-idea-humanity-fr

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