DOMANIQUALE PASSATO PER IL NOSTRO FUTURO?

Manuela Sanna

Un fatto è ora limpido e chiaro: né futuro né passato esistono.
È inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro.
Forse sarebbe esatto dire che i tempi sono tre:
presente del passato, presente del presente, presente del futuro
Agostino, Confessioni, XI, 20, 26

1.

Il nostro immaginario si estende e insieme si ferma all’ipotesi del corpo individuale malato, ma può arrancare visibilmente di fronte all’ipotesi di una malattia collettiva e di un progetto di cura globale. Metafora di fronte alla quale i saperi, anche quello filosofico o letterario in senso lato, vengono chiamati a esercitare una funzione terapeutica. Diciamo che dovrebbero essere chiamati, perché, per dirla tutta:

quando le generazioni future si volgeranno a guardare la Grande Cecità, certo biasimeranno i leader e i politici della nostra epoca per la loro incapacità di affrontare la crisi climatica. Ma potrebbero giudicare altrettanto colpevoli gli artisti e gli scrittori, perché dopotutto non spetta ai politici e ai burocrati immaginare altre possibilità[1].

A chi tocca allora immaginare il migliore dei mondi possibile (quello leibniziano certo, ma anche quello di Aldous Huxley, nel suo Brave New World del 1931), o quanto meno un qualsiasi mondo possibile, se non addirittura “un mondo degno di essere vissuto”[2], tenendo in giusta considerazione una categoria temporale che ha una forte matrice filosofica, vale a dire quella del futuro? Può capitare che futuro e presente si minaccino a vicenda, ma di certo l’unica forma di futuro possibile si può preparare solo adesso, nelle scelte del presente. Ci capita spesso di sentir dire in momenti emergenziali come questi, o quasi sempre in eventi imprevisti, che non eravamo preparati. Nel senso che la nostra visione del futuro non aveva contemplato quella data eventualità. Non è un caso che il verbo preparare conservi nella sua etimologia quel prae che indica quel che è più avanti, non quel che è proprio di fronte agli occhi. Quel che si allestisce perché diventi futuro, quel che si può allestire necessariamente ante, prima, nel presente; e soprattutto, qualcosa che si fa per un tempo che ci oltrepassa. Per dirla con le parole di Marty McFly, personaggio centrale del celeberrimo film del 1985 Ritorno al futuro: “penso che ancora non siete pronti per questa musica. Ma ai vostri figli piacerà”.

Disastroso sarebbe se le scienze naturali e le scienze umane nella preparazione al futuro smettessero di parlare un linguaggio unico, proprio nel momento in cui sono impegnate, insieme, a ragionare su un nuovo modello di uomo e di cittadino, maggiormente in grado di resistere all’impatto con eventi indicibili. Se il virologo e l’epidemiologo hanno di fatto maggiore voce in capitolo all’interno di un dibattito che si sviluppa in uno stato di emergenza rispetto al politico, quest’ultimo non può e non deve passare il testimone. Perché ormai sappiamo bene che la politica e le sue scelte hanno in tutta evidenza un ruolo centrale nell’emergere di una pandemia[3], e che le scienze umane sentono il bisogno di interrogarsi su un corpo sociale infermo e infetto nella sua globalità[4].

Se è possibile una storia delle pandemie, al contempo si deve poter affermare che è possibile che la pandemia abbia una storia, una sua propria storia che conserva all’interno forti concatenazioni causali, leibniziani rapporti intimi di cause ed effetti. La bellissima e potente immagine che ci offre Giambattista Vico nella sua Scienza nuova potrebbe bene adattarsi a descrivere la storicità di questo evento pur fuori dal comune: «scorse per così lungo tratto dentro il tempo istorico, come i grandi rapidi fiumi si spargono molto dentro il mare e serbano dolci l’acque portatevi con la violenza del corso»[5]. Come a dire che la portata storica di ogni episodio della nostra vita si alimenta di tutti gli episodi del passato che nel presente si riversano. La storicità, appunto, della dimensione specificamente umana. E questa pandemia, come tutte le malattie, ha innegabilmente uno scenario legato all’agire umano e alla sua dimensione politica. Di certo sono le epidemie stesse che cambiano il corso della storia. Va quindi da sé che l’impegno cui è chiamata in questo momento anche la figura dell’intellettuale non è di scarso rilievo. È evidentemente necessario affiancare la parola scientifica della medicina alla parola che spinge ad affrontare la questione in maniera più ampia, che induca a usare un linguaggio più umanistico in senso globale.

2.

Partiamo allora dalla fine. Quando la parabola ascendente di un evento catastrofico arriva a rallentare il suo corso, diventa urgente e necessario formulare più di una domanda sul ritorno a una vita normale, a un percorso che non presenti più connotati di eccezionalità. Il concetto dinormalità racchiude in sé automaticamente un rimando al ritorno: la normalità è quell’insieme di regole, consuetudini, norme appunto che ci permettono di avere un andamento lineare, e perciò stesso ordinato; quindi, se da questo ritmo ci si discosta, occorre voltarsi indietro a ripristinarlo. Sarebbe opportuno approfittare di un momento tragicamente straordinario e fuori dalle regole come questo, per decidere a quale normalità convenga ritornare, o quale normalità convenga inaugurare.

A formulare questa domanda piuttosto ovvia, tra i numerosi dibattiti presenti in rete, è tutto fuor che un addetto ai lavori, nel senso che si tratta di uno sceneggiatore spagnolo, nonché studioso di fenomeni legati al cinema, Ángel Luis Lara[6], che osa dire cose di gran lunga più intelligenti di gran parte dei cosiddetti “divulgatori scientifici” della nostra epoca. E che individua il problema non tanto nel venir fuori del “capitalismo in sé”, ma in primis del “capitalismo in me”, vale a dire che indica il problema puntando il dito sul tanto celebrato stile di vita che ci appartiene. Che ci ha abituato capitalisticamente alla pratica di un’economia complessa che impone una specializzazione così nevrotica da slegare del tutto la produzione dall’individuo, e finalizzata a dividere le persone in due sole categorie, quella dei produttori e quella dei consumatori. Il regista Jonathan Nossiter, autore di film come Mondovino e Resistenza naturale, militante e convinto propugnatore di un approccio culturale all’artigianalità dell’agricoltura non ha dubbi su chi sia quello a cui tocca immaginare il nostro migliore mondo possibile:

Vanno inventate non solo nuove forme, ma anche nuovi regimi di produzione, di scambio, di condivisione e di sostenibilità, immaginando un vero commercio solidale dell’arte e della cultura. Cosa che spetta ai protagonisti di ogni settore, che dovranno dare prova di coraggio, di immaginazione e di un rigore etico che va ben oltre tutti noi[7].

La produzione del cibo, per esempio, rappresenta per una grossa fetta di dibattito sul mondo globalizzato, espressione dei sottili legami che in essa si nascondono tra azioni quotidiane e responsabilità personali, mettendo del tutto in ombra così “elegantemente il nostro coinvolgimento in tutto quello che viene fatto per nostro conto da altri specialisti sconosciuti, dall’altra parte del pianeta”[8], e scavando una sempre più profonda distanza tra l’individuo-non faber e tutti i processi per i quali la materia cruda diventa cotta, modificando cioè il nostro concetto di cibo in un’astrazione pura. E se il cibo, per un difetto di origine legato al “capitalista che è in me”, diventa astrazione, se ci nutriamo di rappresentazioni, finiamo per perdere qualsiasi contatto con la materia simbolica del cibo che chiama in causa emozioni, ricordi, pulsioni, e finiamo per abbattere quella dinamica trasformativa alla base della simbolica distinzione tra crudo e cotto che sta a fondamento, per Levi-Strauss, della nascita della civiltà.

Frank Snowden, storico americano delle epidemie e della medicina, esperto di storia italiana moderna e professore all’Università di Yale, che in questo periodo vive in Italia e ha al suo attivo un quarantennio di studi sulla storia delle epidemie, in un’intervista apparsa sul “Manifesto” definisce l’attuale pandemia “la quintessenza dell’epidemia di una società globalizzata. Globalizzazione significa distruzione dell’ambiente, il mito di una crescita economica infinita, un’enorme crescita demografica, grandi città e trasporti aerei rapidi”[9]. Autore di un volume dal titolo Epidemics and Society: from the Black Death to the Present[10], ha definito proprio le epidemie una categoria di malattie che fungono da specchio per gli esseri umani e che rivelano loro le caratteristiche culturali adottate che hanno permesso al virus di propagarsi.

È interessante notare come la questione sia stata seguita da un settore di letteratura non specialistica, composta da uomini di lettere piuttosto che da scienziati, che hanno creato veri e propri movimenti, soprattutto negli Stati Uniti ma con un discreto credito altrove, sul legame indiscutibile tra la presenza dell’allevamento industriale come fenomeno culturale e l’insorgere a ritmo serrato di malattie sconosciute. Una riflessione da parte di prosatori che ha anche lamentato – come l’indiano Gosh che ha al suo attivo numerosi romanzi fra i quali The Hungry Tide del 2004, interamente ambientato nelle foreste di mangrovie dell’arcipelago delle Sundarban, lo studio delle quali lo spinge a chiedersi come il mondo della cultura e della letteratura reagisca a questo epocale cambiamento – l’assenza di una forma letteraria che utilizzi come ambientazione la deriva del nostro pianeta: romanzi a questo dedicati vengono relegati (anzi, segregati) esclusivamente nel genere fantascientifico tout court. Siffatta produzione saggistica nata dalla penna di romanzieri punta il dito sul fatto che “negli ultimi trent’anni si sono identificati più di trenta patogeni umani, la maggior parte dei quali virus zoonotici come l’attuale Covid-19”[11], nati cioè dal passaggio diretto dagli animali agli esseri umani e individuati già nel 2004 dall’Oms nella sempre crescente domanda di proteine animali e nella conseguente ricaduta nella massiccia intensificazione della produzione industriale.

È proprio la polisemanticità del termine ‘cultura’ che permette di individuare un orizzonte molto vicino alla cultura della terra e al valore che essa acquista nelle società contadine, aggiungendovi anche l’etimo che lo lega al concetto il cultus, l’elemento rituale e religioso. Cicerone utilizza il termine cultura animi e presta il sostantivo ai confini dell’humanitas, conferendogli un senso che non aveva prima. Non a caso affrontare le terre selvatiche e portarle a coltura rappresenta per Giambattista Vico il primo gesto di humanitas, seguìto poi significativamente dalla religione, dai matrimoni e dalle sepolture. Le terre portate a coltura saranno le stesse terre che faranno da sepolcri ai morti e che passeranno dall’essere terre da semina a elementi di difesa delle famiglie. E in quella cultura c’è la stretta derivazione dal verbo colere, che significa principalmente “prendersi cura” ed è utilizzato in primis nel significato agricolo. Questo perché cultura e civitas devono essere intimamente legate, e la civiltà può svilupparsi solo intorno a bisogni umani e alla necessità di adeguare rispettosamente le risposte a bisogni che cambiano nel tempo e si accrescono. E così, dalla divisione e dalla coltivazione dei campi vengono fondate le città e poi le nazioni, mutando radicalmente il rapporto tra storia naturale e storia culturale, bruscamente interrotto dalla scissione radicale tra coltura e cultura.

Ma la nascita dell’agricoltura intensiva si verifica in un momento storico preciso, allorquando si decide di riconvertire le fabbriche di munizioni in produzioni di fertilizzanti e, invadendo di chimica i campi, in poco tempo diventa l’unica modalità agricola possibile[12], incriminata ben presto per il collegamento evidente con l’insorgere di malattie tipiche della civiltà occidentale. La necessità di riformulare tutto l’indotto legato alla macchina bellica produce la trasformazione epocale dell’agricoltura in Occidente.

3.

Di non poco interesse la discussione sul cibo che viene avviata da una vera e propria corrente caratterizzata dagli studi di Michael Pollan, giornalista statunitense dedicato ad approfonditi libri-inchiesta sul tema del cibo, tra i quali The Omnivor’s Dilemma: A Natural History of Four Meals del 2006[13], che ne intavola un’interessantissima disamina. L’inevitabilità e anche l’imminenza dell’attuale pandemia – dopo la spagnola del 1918 e quelle del 1957 e del 1968 – era stata già prefigurata dalla direzione dell’OMS nel 2004[14]. L’OMS suggeriva anche che la stima dei morti si sarebbe aggirata dai due ai sette milioni se il virus si fosse diffuso per via aerea. Ma già nel 1997 con l’influenza aviaria gli epidemiologi avevano ipotizzato che la grande sfida per il mondo sarebbe stata la sfida dei virus polmonari; a questi siamo più vulnerabili e occorre che ci prepariamo con cura, non come ci siamo fatti trovare totalmente impreparati all’Ebola. Che l’attuale e massiccia attività agroindustriale così come è concepita nel mondo moderno sia implicata direttamente – al pari delle modalità di produzione alimentare – nella nascita del fenomeno della zoonosi è fenomeno innegabile[15].

La produzione del romanziere, ma soprattutto agricoltore, Wendell Berry, e la sua convinta affermazione che “mangiare è un atto agricolo”, come recita in un suo lavoro del 2009[16] apre la strada a una riflessione sul coinvolgimento sempre personale nell’agricoltura: nessuno escluso, siamo tutti coinvolti e tutti obbligati a pensare in modo inedito il rapporto tra cibo e agricoltura.

Ogni tipo di agricoltura rappresenta un prodotto culturale. Ed è altrettanto ovvio che la cattiva agricoltura può discendere da cattive politiche e dalla cattiva politica[17]

Così, prende spazio l’affermazione di una differenza sostanziale tra un’economia globale, mirante all’uniformità e alla scarsa caratterizzazione dei singoli prodotti, e un’economia locale, in grado di percepire l’unicità e la particolarità del singolo. Singolarità e specificità che si traduce in un cibo che possiede una sua propria storia e in un consumatore che non soffre di quella “fuorviante e pericolosa amnesia culturale” derivata da una mancata associazione di cibo e terra. Alla base di questa comunicazione filosofica c’è sicuramente una concezione dell’intero profonda ed esplicitamente critica verso la lettura cartesiana in senso stretto: educazione ad essere persone intere, considerazione del paesaggio come interi, corpi non come insieme di parti ma come tutti interi, assimilazione del sapere medico a una forma di guarigione che restituisca interezza. Le singole parti hanno scarso valore se prese solo in se stesse e non contestualizzate all’intero dell’essere umano.

Un altro non trascurabile fenomeno, parallelo all’adozione di allevamenti intensivi, è di certo quello della globalizzazione del fenomeno urbano, che ha portato con sé uno sfrenato fenomeno di addomesticamento di specie animali. L’addomesticamento delle specie animali che diventano per noi cibo comporta, in una ricaduta a cascata, lo stravolgimento del cibo a loro volta ingerito dagli animali in cattività. La scarsa qualità degli alimenti messi a disposizione degli animali chiusi nelle grandi industrie zootecniche diventa necessaria per una logica di opportunità economica, e diventa fatale per il consumatore apparentemente ignaro di quel che succede all’origine della catena. Il celebre biologo Robert G. Wallace[18] ci ha spiegato chiaramente quale sia la linea di connessione diretta tra big farms e big flu, tra mega-fattorie e mega-influenze. Jonathan Safran Foer – romanziere di grande successo e molto conosciuto per aver firmato il celebre romanzo, tradotto anche in film,Ogni cosa è illuminata del 2002, ma soprattutto dell’epico Eccomi del 2016 – ci ricorda che “un tropo diffuso, antico e moderno, descrive la domesticazione come un processo di coevoluzione tra esseri umani ed altre specie”[19] basata su un presunto assenso animale derivato da un punto di vista marcatamente post-darwiniano. Per Foer è innegabile che

qualunque discorso sulle pandemie influenzali oggi non può prescindere dal fatto che la malattia più devastante che il mondo abbia mai conosciuto, e una delle minacce più grandi per la salute che abbiamo di fronte, ha a che vedere proprio con la salute degli animali da allevamento, volatili in primis[20].

Prima che scoppiasse l’epidemia della sindrome respiratoria acuta grave da coronavirus nel 2003, erano noti solo altri dodici coronavirus animali o umani. La scoperta di questo virus ha aumentato il numero nell’elenco dei coronavirus ad almeno trentasei. La natura esplosiva della prima epidemia di SARS, l’elevata mortalità, la sua transitoria riemergenza un anno dopo e le interruzioni economiche hanno portato a una corsa alla ricerca degli aspetti scientifici di base epidemiologici, clinici, patologici, immunologici, virologici e di altro tipo del virus e della malattia. Ricerca che ha prodotto ben oltre quattromila pubblicazioni. I risultati secondo cui i pipistrelli a ferro di cavallo siano il serbatoio naturale per il virus simile a SARS-CoV e gli zibetti siano l’ospite dell’amplificazione evidenziano l’importanza della fauna selvatica e della biosicurezza nelle fattorie e nei mercati umidi, che possono fungere da fonte e centri di amplificazione per le infezioni emergenti[21]. I pipistrelli d’altra parte erano già stati localizzati come “la maggiore riserva animale di coronavirus del mondo”, e la proliferazione di questa specie fu attribuita all’alterazione del loro habitat causato dai macroallevamenti di bestiame. Pratica della quale, superfluo a dirsi, la Cina detiene la più ingente produzione su scala mondiale.

La produzione zootecnica proviene ormai al novantanove per cento da allevamenti intensivi di circa cinquanta miliardi di animali allevati all’anno. L’impegno di Foer, di estrazione e formazione ebrea, rispecchia anche l’universo delle severe leggi del cibo Kosher, completamente spazzate via dalla zootecnia industriale e private gioco forza del senso potente di una concezione che lo faceva sentire, fin da bambino, “orgoglioso di essere ebreo”[22]. Le caratteristiche unificanti di questa cucina partono dal presupposto che cibarsi sia un atto sacro e per questo il modo di preparare il cibo è regolato da un codice severo di leggi d’ordine igienico, psicologico, estetico, religioso. Secondo la precettistica ebraica un cibo può essere consumato dall’uomo solo se è permesso, cioè solo se viene dichiarato kasher o kosher, ossia conforme alla legge dalla Torah, composta di cinque libri dove si raccolgono più di seicento precetti, molti dei quali riguardano il comportamento alimentare. Pratica alimentare nella quale molto spazio trova, relativamente ai cibi di origine animale, una marcata attenzione verso le caratteristiche dell’animale. Proprio in questo complesso senso, “mangiare è un atto agricolo”.

4.

Tornando allora al ripristino di normalità auspicabile dopo questa tempesta, “la domanda che nasce spontanea è la seguente: ma se non pensiamo al domani, come potremo essere preparati per il domani?”[23]. E l’unica maniera che abbiamo a disposizione per pensare al domani è quella che risponde a una logica che tiene in equilibrio, come nelle parole del Socrate narrato da Platone nel Simposio, tutti gli elementi governati da amore. Amore nel senso di prendersi cura, senza lasciarsi sopraffare dal furore che “distrugge e danneggia mille cose; ché le epidemie in generale provengono da qui e così molte altre malattie diverse agli animali e alle piante”[24]. Laddove per i Greci il senso forte dell’amore è rappresentato da una parte dal desiderio di conoscenza, dalla filosofia autentica, e dall’altra dall’attaccamento alla polis – quindi all’esercizio della politica – unico sentimento in grado di conferire senso alla nostra effimera esistenza[25]. Entrambe figlie di un sentimento propulsivo come il desiderio, che cela in sé uno sforzo d’immaginazione forte. Questo ci tocca fare, immaginare qualcosa di diverso e di desiderabile.

[Online 22.04.2020]

[1] A. Gosh, The Great Derangement. Climate Change and the Unthinkable, 2016; tr. it. La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile , Vicenza, Neri Pozza, 2017, p.166.
[2] M. Nussbaum, Not for Profit. Why Democracy needs the Humanities, 2010; tr. it. Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, Bologna, Il Mulino, 2011, p. 154.
[3] Cfr. F. Neyrat, Biopolitique des catastrophes, Paris 2008.
[4] A. Soumahoro, Avevamo già tutti un male pregresso, in “L’Espresso”, 5 aprile 2020, p. 49.
[5] G. Vico, La scienza nuova 1744, Milano, Mondadori, 1990, p. 592.
[6] Ángel Luis Lara , Non torniamo alla normalità. La normalità è il problema, in “il Manifesto”, 5.4.2020
[7] J. Nossiter, Insurrection culturelle, Paris, 2015; tr.it. Insurrezione culturale. Per una nuova ecologia della cultura, Modena, Habitus, 2016, p. 227.
[8] M. Pollan, Cotto, Milano 2014, p. 31.
[9] S. Levantesi intervista Frank Snowden, Questa epidemia specchio di una globalizzazione letale, in “Manifesto”, 15.4.2020.
[10] Yale University Press, 2019.
[11] A. L. Lara, cit.
[12] W. A. Price, Nutrition and Physical Degeneration. A Comparison of Primitive and Modern Diets and Their Effects 1939. Paul B. Hoeber, Inc; Medical Book Department of Harper & Brothers.
[13] In traduzione italiana Il dilemma dell’onnivoro, Milano 2008 e In difesa del cibo, Milano 2009.
[14] World is ill-prepared for ‘inevitablÈ flu pandemic , in “Bulletin of the World Health Organization”, 2004, pp. 317-318, http://who.int/bulletin/volumes/82/4/who%20news.pdf
[15] “La presenza massiccia di persone in ecosistemi prima indisturbati ha innalzato negli ultimi decenni il numero delle zoonosi – le infezioni umane di origine animale – com’è stato documentato per l’ebola e l’hiv” (L. Spinney, C’è una relazione tra allevamenti intensivi e nuovo coronavirus? , in “Internazionale”, 9.4.2020).
[16] W. Berry, Bringing It to the Table. On Farming and Food, 2009; tr.it. Mangiare è un atto agricolo, Torino, Lindau, 2015.
[17] Ivi, p. 21.
[18] R. G. Wallace, Big Farms make Big Flu: Dispatches on Infectious Disease, Agribusiness, and the Nature of Science , New York, 2016.
[19] J. S. Foer, Se niente importa. Perché mangiamo gli animali?, Milano, 2010, p.110. Di impegno militante su questi temi, Foer è autore anche del recente Possiamo salvare il mondo prima di cena, Parma, Guanda, 2019.
[20] Foer 2010, p. 139.
[21] V.C. Cheng, S. K. Lau, P. C. Woo, K. Y. Yuen, Severe acute respiratory syndrome coronavirus as an agent of emerging and reemerging infection , in “Clinical Microbiology Rewies”, ott.2007, pp.660-694.
[22] Ivi, p. 78.
[23] W. Berry, Our only World: Ten Essays, 2015; tr. it. L’unico mondo che abbiamo, Prato, Piano B edizioni, 2018, p.148.
[24] Platone, Simposio, in Id., Opere complete, Bari Laterza, 1996, vol. III, p. 163.
[25] E su questo si legga il bel volume di M. Bonazzi, Creature di un sol giorno. I Greci e il mistero dell’esistenza , Torino, Einaudi, 2020

⸻ ALLEGATI