Capire nell'emergenza
Ce qui vient, en effet, il ne peut être question de le dire,
ni même de tenter à son sujet la moindre hypothèse,
comme le font chaque jour les « experts »
(François Zourabichvili, Ce qui vient)
Nel dibattito pubblico di questo tempo di quarantena, nell’urto dei primi giorni di clausura, è stata espressa più volte l’esigenza di capire. Una forte, sincera esigenza, quasi «voce dal sen fuggita», perché così non era stata esplicitata da mesi, da anni. Risvegliata, sembrerebbe, proprio dallo sgomento dell’assoluta inafferabilità di tutto: non solo del virus e della sua diffusione, ma di quello che eravamo e che siamo diventati. Innestata, qesta esigenza, nella paura, del contagio e della morte innanzitutto, ma anche degli effetti mortali di questa clausura, delle sue forme terribili di isolamento e di abbandono.
Un capire senza oggetto preciso, al di là di ogni scienza e competenza, invocato debolmente nel presente e auspicato per il futuro, in una forma più distesa e riflessiva: quando tutto questo sarà finito, bisognerà riflettere.
Nella sua immediatezza e “impossibilità”, la necessità di capire è stata quasi sempre declinata al noi; Paolo Giordano, parlando alla radio il 26 marzo 2020 di un suo libro, Nel contagio, che usciva quello stesso giorno – «un atto di urgenza contro la confusione» – dichiarava la necessità, e la generosità, del mettere a disposizione degli altri, in quel momento, ciò che si era capito[1]. «Ragionare a caldo su questi nostri giorni non è fuor di luogo», esordiva la conduttrice del programma.
Il 4 gennaio 2020 – poco prima di tutto questo, ma decisamente prima – usciva sull’«Avvenire» un breve articolo di Ivano Dionigi, una tessera più che un articolo; il titolo era Intelligere[2]. Siamo di fronte, si scriveva, a rivolgimenti politici, economici e sociali «caratterizzati da improvvise discontinuità e soprattutto da sorprendente velocità […]. Di fronte a questi scenari, che creano smarrimento e paura – come ci ammoniva Spinoza – è necessario “né irridere né compiangere né disprezzare ma capire le azioni umane”. Sì, intelligere, vale a dire “cogliere (legere) il dentro (intus) e la relazione (inter) delle cose”». Poco più di due mesi fa, prima di tutto questo, e senza poterlo neanche immaginare, si esprimeva su un quotidiano una simile esigenza, che pur essendo legata al presente suonava del tutto inattuale. «Servono [..] – direbbe Empedocle – “pensieri lunghi” », scriveva ancora Dionigi.
I «pensieri lunghi» sono della filosofia: impossibile non ricordare «il giro più lungo» che Platone richiede al filosofo[3]. Una lunghezza di percorso che è certo sollecitudine e fatica, ma è anche libertà nel procedere, e non è necessariamente lentezza. Certamente è uscita dallo stato di minorità, minorità colpevole, per dirla con Kant, quando la sua causa stia «nella mancanza di decisione e di coraggio nel servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro»[4].
La necessità di capire, dell’intelligenza delle cose, può incontrarsi con il pensiero lungo della filosofia in un tempo di emergenza? Nella velocità e nell’immediatezza di un presente che sgomenta?
Gli stessi giorni in cui affiorava da più parti l’esigenza di capire, è scoppiato, letteralmente, un dibattito filosofico veloce e aspro, innescato da brevi interventi di Giorgio Agamben, che allo «stato di eccezione» ha dedicato negli ultimi decenni un’ampia riflessione, e che rilevava nello stato di emergenza instaurato per contrastare l’epidemia, non ancora dichiarata pandemia, «la tendenza crescente a usare lo stato di eccezione come paradigma normale di governo[5]. Questo il 26 febbraio 2020. Contemporaneamente, Agamben dichiarava sproporzionato il panico diffuso rispetto alla realtà dell’epidemia, citando a sostegno dati del Cnr. Quando ancora, quindi, l’epidemia non aveva assunto caratteri gravissimi e globali, e prima che il governo italiano decretasse il confinamento su tutto il territorio nazionale, il 9 marzo 2020. A quel decreto seguiva l’11 marzo un articolo di Agamben, Contagio[6], con ulteriori Chiarimenti pubblicati il 17 marzo[7]. Questi gli interventi che hanno provocato immediate ed aspre reazioni. È stato un dibattito, come tutto il resto, sospeso sulla «schiuma dei giorni», di quei giorni, di ciò che giungeva immediatamente ai nostri occhi, alle nostre orecchie, attraverso le finestre dei media e del web; e nello stesso tempo, sembrerebbe, tutto interno al «piccolo mondo della filosofia», come ha scritto uno dei suoi protagonisti. Ma nella velocità di quel dibattito, nell’urgenza dei pronunciamenti, decisamente inusuale in quel piccolo mondo, sembra manifestarsi l’urgenza di capire che è di tutti. Più nelle reazioni, in verità – alcune, assolutamente non tutte – che negli interventi di Agamben che quelle risposte hanno provocato, che suonano categorici, assertivi, apodittici, e soprattutto sembrano inserirsi sulla scia di teorie “già pronte”. Questa è stata l’opinione di tutti quelli che ad Agamben hanno risposto, è stata forse la scintilla che ha innescato le reazioni immediate. Unanime la denuncia della «prevedibilità» dei pronunciamenti di Agamben[8], e il rifiuto, in qualche caso anche violento, di quelle teorie categorie come invecchiate e inadatte; in una situazione di emergenza che ha, in tutta evidenza, i caratteri della più sconcertante novità.
«Incapacità di presa sul reale»: così riassumeva efficacemente Luca Liberati il 31 marzo l’impressione di molti; una «incapacità di leggere l’epidemia per ciò che essa rappresenta per l’esistenza concreta delle singole vite e delle comunità dentro cui quelle vite sono ciò che sono»[9].
La “risposta” di Liberati ad Agamben è appunto centrata sulla denuncia di astrazione dell’uso del concetto di «nuda vita»; concetto che Agamben aveva invocato in quei suoi Chiarimenti del 17 marzo: «l’ondata di panico – scriveva – che ha paralizzato il paese mostra con evidenza che la nostra società non crede più in nulla se non nella nuda vita. È evidente che gli italiani sono disposti a sacrificare praticamente tutto […] al pericolo di ammalarsi». Chiamati a testimoniare la possibilità di una più ampia e concreta accezione del concetto di vita, che non separi, nella vita storia e natura, natura e libertà, Benjamin innanzitutto – al quale si deve del resto il concetto di “nuda vita”- Kant e Hegel. «Per Hegel la vita è ciò che si pone al di là di tutte le astrazioni con cui l’intelletto cerca di controllare, vincolare e trattenere il reale».
La splendida ipotesi hegeliana di «presa sul reale» è stata invocata in risposta ad Agamben il 20 marzo anche da Mario Farina, che sembrava però ricavarne l’invito ad una sorta di cautela. Nella citazione del riconoscimento di Hegel da parte dell’amico Herbart: «l’umiltà di accogliere i dati del dibattito scientifico per quello che erano, senza la pretesa di insegnare alla scienza il suo mestiere». E nelle conclusioni: «Di fronte a una crisi umana e sanitaria come quella che stiamo vivendo la filosofia può allora conservare un compito. E questo compito è quello di assumere i dati che le arrivano e contribuire a fare chiarezza. Richiamando ancora Hegel, è la nottola di Minerva che deve farle da guida»[10].
Ma la nottola di Minerva, com’è noto, «inizia il suo volo soltanto al crepuscolo». Rappresenta, per Hegel, una filosofia che «giunge sempre troppo tardi», almeno per quel che riguarda il «dare insegnamenti su come dev’essere il mondo». «In quanto pensiero del mondo essa appare soltanto dopo che la realtà ha compiuto il suo processo di formazione e s’è bell’e assestata»[11]. La nostra realtà, evidentemente, è tutt’altro che assestata.
Certo Farina non propone alla filosofia il compito di «dare insegnamenti» ma quello «di assumere i dati che le arrivano per fare chiarezza». È comunque la proposta di una riflessione ex post. E di una idea dei dati come base di partenza che, se è sempre discutibile, è assolutamente inutilizzabile nel momento attuale, dominato dall’incertezza, in cui i dati, anche quelli scientifici, sono fluttuanti, mutevoli, tutt’altro che incontrovertibili. Roberto Beneduce, il 3 aprile, proponeva di partire proprio «da queste aree di non conoscenza (Last, 1981) per comprendere gli atteggiamenti ambivalenti che hanno contraddistinto il nostro comportamento in queste settimane»[12].
Una realtà complessa ed estrema, quella del nostro presente, che certamente non può essere compresa nelle categorie già pronte, e astratte, di Agamben, ma in cui neppure può essere “rimandata” l’esigenza di capire.
Piuttosto che individuare un «compito» per la filosofia, si potrebbe forse raccogliere quella sorta di invito, di esortazione, che nel 2003 pronunciava François Zourabichvili, citato in epigrafe. Dichiarata l’impossibilità per la filosofia, di dire qualsiasi cosa su «ce qui vient», ciò che arriva, che sopraggiunge, Zourabichvili subito aggiungeva che la filosofia ne è toccata, colpita; ciò che non può essere oggetto di sapere è, come tale, oggetto di ansietà, «dunque reclama di essere pensato. “Ciò che viene”, nel senso più immediato del termine, è una scadenza»[13].
La peste di Camus mostra, in uno dei suoi molti luoghi risonanti, quanto l’astrazione possa innestarsi nella disperazione del concreto: nella sciagura, riflette dolorosamente il medico Rieux, nella sua concretissima monotonia di morte e di dolore, c’è «una parte di astrazione e di irrealtà»[14].
La disperazione così forte da essere astratta ha dominato i nostri giorni di quarantena; poco esplicitata, per un estremo pudore della situazione disumana in cui si era costretti, nell’isolamento più radicale, e della paura che da quest’isolamento derivava, insieme alla paura del contagio.
In nessuna delle critiche ad Agamben viene rilevata la disumanità delle nostre vite segregate; Agamben, per parte sua, l’ha solo enunciata[15].
Nello stesso momento in cui milioni di persone erano costrette all’isolamento per tutelarne la vita, fino allo strappo della distanza dai malati e dai morti – del loro abbandono – la «nuda vita» di tanti, comunque la si voglia intendere, è stata messa a rischio negli ospedali e nelle Rsa: medici, infermieri e pazienti si ammalavano e morivano, in una sorta di macabra festa del contagio, semplicemente perche non venivano adottate le più elementari misure di sicurezza.
Il diritto alla vita e alla salute, nel nome del quale si sono azzerati altri diritti fondamentali[16], non è stato garantito; negli ospedali, ma anche nelle case in cui si era rinchiusi. La numerosissima schiera dei malati di ogni malattia è stata abbandonata, come sono stati abbandonati tanti, troppi: sono passati giorni prima che nei comunicati istituzionali e nel dibattito pubblico comparissero «i più fragili», gli «ultimi» – con espressione evangelica – anche i bambini. Nello stesso momento in cui si adottavano misure restrittive così estreme si faceva mancare la cura: la cura medica, ma anche il più vasto e ugualmente essenziale prendersi cura.
L’abbandono dei cittadini da parte dello Stato è forse uno degli aspetti più eclatanti di questo stato di emergenza. Abbandono che convive con l’estremo controllo, in un’assenza però di “governo” e di direzione.
La passività con cui è stato accettato lo “stato di eccezione” è anche nel silenzio, di pensiero e parole, che ha risposto alla disumanità di quell’abbandono come se fosse necessaria, inevitabile. Agamben si chiedeva a proposito: «Perché non ci sono state, come pure era possibile immaginare e come di solito avviene in questi casi, proteste e opposizioni?»[17].
Rilevava cioè la passività ma non il silenzio che la costituisce, nutrito dall’impotenza e dall’oblio della possibilità di «pensieri lunghi».
[30 aprile 2020]
[1] Fahrenheit, Radio3, 26 marzo 2020, https://www.raiplayradio.it/audio/2020/03/FAHRENHEIT–Nel-contagio-6cb76c50-db14-4ad6-9f62-dd44fbd86267.html
[3] Platone, Repubblica, VI, 504d.
[4] I. Kant, Risposta alla domanda: cos’è l’illuminismo? in Scritti di storia, politica e diritto, a cura di F. Gomelli, Bari, Laterza, 1995, p. 45.
[5] https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-l-invenzione-di-un-epidemia , 26 febbraio 2020 (e nello stesso giorno: https://ilmanifesto.it/lo-stato-deccezione-provocato-da-unemergenza-immotivata ) .
[8] Cfr. per tutti D. Grasso, Agamben, il coronavirus e lo stato di eccezione, «minima&moralia», 27 febbraio 2020, http://www.minimaetmoralia.it/wp/agamben-coronavirus-lo-eccezione
[9] L. Liberati, Dal contagio alla vita. E ritorno. Ancora in margine alle parole di Agamben , «Le parole e le cose», 31 marzo 2020, http://www.leparoleelecose.it/?p=38033
[10] M. Farina, Su Agamben e il contagio. Il ruolo della filosofia e la comune umanità , «Le parole e le cose», 20 marzo 2020, http://www.leparoleelecose.it/?p=37978
[11] G. W. F. Hegel, Prefazione a Lineamenti di filosofia del diritto, tr. it. di G. Marini, Roma-Bari, Laterza, 1996, p. 17.
[12] R. Beneduce, Storie virali. Le lezioni di una pandemia, 3 aprile 2020, Atlante Treccani, http://www.treccani.it/magazine/atlante/cultura/Le_lezioni_di_una_pandemia.html
[13] F. Zourabichvili, «Ce qui vient » (conférence inaugurale du festival CitéPhilo, Lille, novembre 2003), ora in La littéralité et autres essais sur l’art, textes présentés par A. Sauvagnargues, Presses Universitaires de France, Paris, 2011, p. 73.
[14] A. Camus, La peste, Paris, Gallimard, 1996, p. 101.
[15] Una domanda , 14 aprile 2020, https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-una-domanda
[16] G. Zagrebelsky, «la Repubblica», 20 marzo 2020: «Per ora mi paiono misure a favore della più democratica delle libertà: libertà dalla malattia e dalla morte».
[17] G. Agamben, Riflessioni sulla peste, 27 marzo 2020, https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-riflessioni-sulla-peste
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