Educare all'incertezza: filosofia della scienza e comunicazione
apparso in “Scienza&Società”, 1/2, 2007, pp. 93-100.
Nella sua accezione più generale, la filosofia della scienza – o epistemologia, secondo l’uso invalso specialmente nella tradizione anglosassone – è una branca della filosofia che ha per oggetto la natura della conoscenza scientifica.
Il suo ruolo nella comunicazione della scienza non è mai stato messo in discussione; presente oggi in tutti i curricula formativi specializzati in questo senso, già nella codificazione dei primi progetti di “Comprensione Pubblica della Scienza” e “Alfabetizzazione Scientifica”, messi a punto nella seconda metà del ‘900 in area anglosassone, era stata riconosciuta l’importanza di una formazione epistemologica – oltre che storica e sociologica – intorno alla “natura della scienza”[1].
Ma anche la crisi di questi modelli in anni recenti sembra conferire alla filosofia della scienza un ruolo di primo piano, nel contesto dei cosiddetti “science studies”. Nella misura infatti in cui l’insuccesso di questi programmi è apparso legato a un’immagine diffusionista della trasmissione del sapere scientifico, come qualcosa che non può che procedere dall’alto della comunità scientifica verso il basso di una generica ignoranza, una comprensione critica – una “meta-informazione” – sui presupposti, gli orizzonti di validità, i procedimenti propri della scienza appare sempre più come un tassello decisivo nell’approssimarsi di una nuova frontiera: quella che, dalla mera alfabetizzazione, si è frattanto spostata verso una più estensiva “presa di coscienza scientifica” (“scientific awareness”), indispensabile per l’accesso ai diritti implicati dalla nascente “cittadinanza scientifica”[2].
Della crisi di un’immagine dogmatica della scienza, l’epistemologia del ‘900 non è stata solo spettatrice, ma protagonista. Inizialmente partecipe se non promotrice di un’immagine della scienza come mondo a sé, governato da una razionalità ottimale, ha poi contribuito in modo sostanziale a minarne le fondamenta, dando vita a un dibattito ancora aperto sulla validità della conoscenza scientifica e le sue condizioni effettive.
Certezza e normatività
Alle origini dell’epistemologia contemporanea – come della sua professionalizzazione disciplinare – sta il grande programma di ricerca del positivismo, o empirismo, logico, della prima metà del ‘900. Esso assume la scienza (pensata essenzialmente sul modello delle scienze “dure”) come la forma normativa del sapere intorno al mondo, mentre l’epistemologia ha come compito di chiarire (“giustificare” filosoficamente) la struttura della spiegazione scientifica, per poterla applicare a tutti gli ambiti del sapere umano. La chiarificazione di questa struttura, e delle condizioni che garantiscono la sensatezza delle proposizioni scientifiche, intesa sul modello della verificabilità empirica, ha una funzione di “demarcazione”: le teorie cui tale struttura risulta applicabile ricevono il marchio della scienza, le restanti vengono estromesse dal suo dominio.
L’immagine della scienza da cui parte l’epistemologia contemporanea è dunque potentemente unitaria. Se essa non tematizza più esplicitamente la “certezza” cartesiana come fondamento della conoscenza valida, ne assicura però saldamente il rigore. Per quanto lontano possa apparirci oggi, il grand recit del neopositivismo mantiene indubbiamente un fascino etico e politico, cui la frammentazione attuale può ancora renderci sensibili. La riduzione – non priva di violenze – della molteplicità crescente dei saperi scientifici ad un criterio veritativo unitario sembrava infatti rendere possibile in prospettiva una comunicabilità assoluta tra le scienze, suturando anche la frattura tra scienze umane e scienze naturali.
Il compito normativo dell’epistemologia non è revocato in dubbio neppure nella critica al positivismo logico di Popper, che ne attacca soprattutto il modello induttivistico di verificazione; nella teoria fallibilista, infatti, la demarcazione tra scienza e non-scienza resta uno dei compiti principali della epistemologia. Nella visione di Popper, la scienza è un processo continuo ed aperto di autocorrezione delle teorie attraverso “congetture e confutazioni”. La strutturale provvisorietà della conoscenza scientifica la pone dunque agli antipodi rispetto alla ricerca di certezze. Ma incertezza e normatività non sono in un rapporto di esclusione reciproca. La scienza è un’impresa razionale e progressiva, e le sue costruzioni provvisorie sono costantemente sulla traccia della realtà, la cui esistenza indipendente costituisce il banco di prova ultimo della “verosimiglianza” delle nostre ipotesi sul mondo.
Non ci sembra improprio collegare l’assunto della razionalità – pur variando i criteri per misurarla – della impresa scientifica con la configurazione sociale della “scienza accademica” analizzata da Ziman negli anni ’90[3]; ma sarà proprio la possibilità di comprendere la produzione di credenze dotate di una pretesa di verità solo a partire da criteri intrinseci, “internalistici”, che sarà messa in crisi negli anni ‘60 dalla epistemologia di Kuhn, che si fonderà in modo inedito con gli strumenti euristici della storia della scienza.
La funzione normativa della epistemologia, correlata com’era originariamente alla elevazione della scienza a sapere intrinsecamente valido, era preceduta da una funzione descrittiva dei procedimenti effettivamente utilizzati dalla scienza per produrre la crescita delle conoscenze. Il metodo adottato da Kuhn consiste nell’utilizzare la storia della scienza come laboratorio per un’analisi di come effettivamente si siano prodotte ed affermate le teorie scientifiche sui fenomeni naturali, per testare la loro effettiva razionalità. I risultati furono sconcertanti: le teorie che hanno prevalso sulle altre nel corso della storia non erano affatto sempre le più “razionali” in rapporto ai fenomeni che si prefiggevano di spiegare. Altri fattori, extra-scientifici, dimostravano una notevole rilevanza nel gioco della competizione tra le teorie: fattori “politici” in senso lato, legati al prestigio di particolari scuole (gli effetti dell’autorità), o storici, come la inerzia dei quadri teorici di riferimento nella percezione scientifica dei fenomeni (la carica di teoria presente nell’osservazione stessa). Non risultava più possibile assumere la razionalità come un valore intrinseco del procedere scientifico; essa assumeva piuttosto le sembianze, come dirà Laudan, di una “macchina da guerra” messa di volta in volta in campo sul terreno di una competizione strettamente interconnessa con condizioni storico-culturali determinate.
L’immagine di Kuhn dell’evoluzione delle teorie scientifiche non è tuttavia pessimista. La sua visione in qualche misura è ancora unitaria: il “paradigma” che assume il dominio in una determinata epoca costituisce una rivoluzione “gestaltica”, e deve il suo prestigio alla capacità pragmatica di risolvere problemi e venire a capo di anomalie lasciate irrisolte dal paradigma precedente. Esso produce unità in quanto tutta la comunità scientifica lo assimila rapidamente e orienta in base ad esso le sue ricerche, producendo la lunga fase della scienza normale, fino alla rivoluzione successiva, nel cui stato nascente vige un’anarchia e un dissenso generalizzato.
Ma gli esiti della riforma kuhniana dell’epistemologia sono indubbiamente relativistici, e aprono una fase nuova di studi, che influenzerà anche lo sviluppo di molte discipline che oggi formano gli “science studies”, incluse quelle che produrranno le versioni più estreme di relativismo, come gli esiti costruttivistici della sociologia della scienza.
Nello stesso periodo, verso la fine degli anni ‘60, Quine revoca in dubbio la possibilità stessa che l’epistemologia possa ascriversi il compito di una giustificazione della verità. Lo smantellamento sistematico dell’apparato concettuale legato all’impegno normativo, e a qualsiasi residua velleità da parte della filosofia di “fondare” la scienza, finisce per mettere in causa la stessa separazione di principio tra filosofia e scienza, promuovendo una naturalizzazione dell’epistemologia. Quine riprende una celebre metafora di Otto Neurath, secondo la quale la conoscenza è come una nave che i marinai devono riparare nel corso della navigazione, sostituendo pezzo dopo pezzo; non esiste dunque luogo di quiete esterno alle scienze empiriche da cui contemplare il loro funzionamento. Per ricostruire i processi cognitivi in gioco nella produzione di credenze efficaci, la filosofia deve divenire anch’essa una scienza empirica, una psicologia che descriva come dalla povertà delle esperienze sensibili – unica fonte della nostra conoscenza del mondo – si genera la ricchezza delle nostre teorie.
Normatività e funzione di demarcazione sono evidentemente inscindibili nell’epistemologia. La conseguenza dell’abdicazione al suo status normativo è stata la dismissione del problema della demarcazione dall’epistemologia. Come è sato recentemente osservato, «è paradossale che, nelle ultime decadi, il problema della demarcazione abbia perso visibilità nelle cerchie filosofiche proprio mentre la scienza e la tecnologia acquisivano un’autorità senza precedenti»[4].
Ma questo paradosso non ha mancato di essere percepito da alcune correnti di pensiero contemporanee, persuase dell’impossibilità di scotomizzare la prospettiva “internalistica” della validazione dei procedimenti conoscitivi con il carattere sociale e “situato” della scienza nella vita civile.
In particolare nell´epistemologia sociale di Goldman[5], il problema della demarcazione è tornato a riproporsi come compito etico primario della filosofia della scienza. Prendendo le mosse da un naturalismo “moderato”, egli rivendica alla epistemologia la possibilità di una funzione normativa, nel contesto di una valutazione e incentivazione pubblica delle istituzioni – sia quelle di produzione della conoscenza scientifica che quelle dedicate alla sua trasmissione e comunicazione – valutate credibili in base a un criterio “affidabilistico”, di massimizzazione del numero di conoscenze vere e minimizzazione del numero degli errori. La valutazione della scienza non può essere affidata al libero mercato dell’offerta e della domanda, ma necessita di una regolazione statale in grado di tenere a freno la pressione crescente degli interessi economici e militari in gioco nella “Big Science”. Solo una politica scientifica che ponga in essere le condizioni sociali per una convergenza ottimale tra verità e credito può indurre scienziati, giornalisti, educatori a un ethos della verità nell’era post-accademica della scienza. L’inclusione nella regolazione epistemologica di tutti gli attori in gioco – che ha portato a tematizzare anche un’epistemologia del giornalismo – è condivisa, seppure con presupposti ed esiti variegati, anche da Steve Fuller e dagli altri esponenti dell’epistemologia sociale[6]. Altre correnti attuali dell’epistemologia, tra le quali in particolare l’epistemologia storica, debitrice in particolare della tradizione foucaultiana, condividono l’assunto di una inseparabilità tra fattori “internalistici” (relativi alla scienza in sé) ed “esternalistici” (relativi al riscontro sociale dell´attività scientifica) nella riflessione filosofica sulla scienza, e la necessità che l’epistemologia «si riconnetta ad una più ampia tradizione di impegno filosofico con la politica della conoscenza»[7].
Pluralismo epistemologico e unità della natura
La spinta del naturalismo epistemico a ristabilire un rapporto vivo e interno con le scienze non è estranea al fenomeno recente della pluralizzazione delle epistemologie, che costituisce l’attuale scenario sfaccettato delle “filosofie delle scienze”, ambito che ha nuovamente messo in discussione il confine tra le due culture, estendendosi all’economia, la psicologia e le scienze sociali[8]. Questa pluralizzazione – che implicherebbe tra l’altro curricula accademici interdisciplinari che nell’assetto istituzionale italiano restano pura utopia[9] – riflette la complessità delle tensioni esistenti, in campo epistemologico, dopo la messa in discussione dell’approccio riduzionistico, che tradizionalmente privilegiava gerarchicamente le scienze dure, e dei suoi ripetuti fallimenti. La posta in gioco nella diversificazione delle epistemologie non è solo e tanto la sanzione di un pluralismo epistemologico, che attesti un rapporto non gerarchico tra i metodi ed oggetti diversi delle diverse discipline, quanto la produzione di modelli e teorie in grado di interrelare tra loro la crescente frammentazione di molte “ontologie regionali”, secondo l’antica definizione husserliana. Tuttavia, i tentativi di riunificare la disseminazione di immagini settoriali del mondo non si giocano più tanto intorno all’ideale di una riunificazione delle scienze in vista di una trasparenza finale dell’ordine della natura, quanto nella prospettiva della complessità del reale, che la si rappresenti come modellizzazione di sistemi complessi o come concatenamento tra livelli di realtà dotati di maggiore o minore autonomia[10].
Prospettive di dialogo
Le basi sulle quali si avverte ora l’esigenza di costruire una “nuova atmosfera di dialogo” paritetico tra la scienza e la società[11] presuppongono una analisi assai più fine delle domande che il pubblico pone alla scienza. La consapevolezza acquisita negli ultimi anni dell’estrema varietà nell’utilizzo sociale della scienza ha portato a complicare l’immagine dell’opinione pubblica fino a moltiplicarla in una congerie di pubblici diversi, caratterizzati da temi, interessi e fini a loro volta estremamente “situati”[12].
La gestione biotecnologia del corpo, la valutazione dei rischi collegati all’evoluzione delle tecnologie per la salute e per l’ambiente, sono tra gli esempi più evidenti che nel rapporto tra scienza e società tende a riprodursi sempre più drammaticamente il paradosso segnalato da Wolpert: «la scienza non può essere altro che provvisoria, (…) il pubblico ha bisogno di certezze»[13].
Il paradosso di Wolpert va al cuore di uno dei problemi fondamentali del dialogo tra scienza e società. Ossia all’incommensurabilità tra l’ “epistemologia dell’incertezza”[14] che è ormai parte integrante della visione attuale della scienza, anche quando essa non abiura al compito della normatività, e l’esigenza sociale di appropriazione, a livello individuale come collettivo, degli avanzamenti nella conoscenza e nella trasformazione della natura che scienza e tecnologia producono ininterrottamente.
Se esiste un accresciuto bisogno di filosofia nel nuovo scenario dialogico tra la scienza e la società, evidentemente non può prescindere dal recupero dell’accezione moderna della filosofia come sapere critico, che fornisce gli strumenti per identificare le opzioni filosofiche – e in senso lato extrascientifiche – che sono parte integrante della modellizzazione scientifica della realtà. L’approfondimento di queste opzioni, promosso dall’epistemologia del tardo Novecento, non rende tuttavia possibile semplicemente separare la questione «epistemologica» della natura della scienza da quella «etica e politica»[15]. Se l’epistemologia ha un ruolo importante nell’educazione all’ “incertezza” della scienza, non può non averlo anche nel ristabilire, nella negoziazione continua tra istanze etiche, politiche e sociali che costituiscono il campo della cittadinanza scientifica, le condizioni per la legittimità della sua autonomia. Lontano da qualsiasi sacralizzazione fideistica, è necessario promuovere una concezione laica dell’impresa scientifica come sapere aperto all’autocorrezione, la cui storia ne sancisce l’appartenenza al «progresso paradossale di una ragione che, pur essendo in tutto e per tutto storica, è tuttavia irriducibile alla storia»[16].
(da “Scienza&Società”, 1/2, 2007, pp. 93-100)
[online 22/04/20]
[1] Cfr. Brian J. Alters,Whose Nature of Science?, Journal of Research in Science Teaching, 34, 1, 1997, 39–55, e M.R. Matthews, In Defense of Modest Goals when Teaching about the Nature of Science , Journal of Research in Science Teaching, 35, 1998, pp. 161–174, che da punti di vista diversi esaminano la crisi di questo obiettivo.
[2] Cfr. M. Monk e J. Osborne, Placing the History and Philosophy of Science on the Curriculum: A Model for the Development of Pedagogy , Science Education, 81, 1997, p. 420. Sul concetto di meta-informazione cfr. A. Cerroni, Homo transgenicus, Franco Angeli, Milano 2003, p. 67. Sulla crisi del modello di Public Understanding of Science, cfr. N. Pitrelli, La crisi del “Public Understanding of Science” in Gran Bretagna , JCOM, 2 (1), Marzo 2003.
[3] J. Ziman, Il lavoro dello scienziato: gli aspetti filosofici e sociali della scienza e della tecnologia , Laterza, Roma-Bari 1987
[4] Th. Nickle, Problem of Demarcation, in Philosophy of Science. An Encyclopedia, a cura di S. Sarkar e J. Pfeiffer, Routledge, New-York-London 2006, vol. 1, pp. 188 ss. Sul concetto di cittadinanza scientifica cfr. P. Greco, L’università del XXI secolo, JCOM 6 (2), June 2007; S. Jasanoff ha introdotto anche il termine di “cittadinanza epistemica”.
[5] A.I. Goldman, Knowledge in a Social World, Clarendon Press, Oxford 2000.
[6] Un tentativo di approccio pragmatico al problema della demarcazione, cfr. D.B. Resnik, A Pragmatic Approach to the Demarcation Problem, Studies in the History and Philosophy of Science, 31 (2), 2000, 249–267; un esempio interessante delle difficoltà di portare avanti questo programma all’interno del relativismo delle posizioni costruzioniste, è S. Jasanoff, Beyond Epistemology: Relativism and Engagement in the Politics of Science , Social Studies of Science, 26, 2, 1996.
[7] M. Tiles, J. Tales, An Introduction to Historical Epistemology: the Authority of Knowledge , Blackwell, , Oxford – Cambridge MA 1993, p. 207.
[8] Cfr. Filosofie delle scienze, a cura di N. Vassallo, Torino, Einaudi, 2003; utilissima, e fortemente innovativa per la sua modalità di pubblicazione, è la collana di e-books curata da L. Floridi, Linee di Ricerca, che comprende una raccolta di introduzioni a varie discipline filosofiche, gratuitamente accessibili sul sito dello SWIF (www.swif.biblioteca/lr). Cfr. in particolare, sui temi qui trattati, M. Dorato, Filosofia della scienza – Fondamenti delle scienze; N. Vassallo, Teorie della conoscenza, e G. Piazza, Epistemologia sociale, Milano 1997.
[9] La questione dell’inserimento della filosofia della scienza nei curricula accademici scientifici è stata sollevata nel Rapport sur l’enseignement de la philosophie des sciences au ministre de L’Education nationale, de la Recherche et de la Technologie di D. Lecourt, 1999 (http://pedagogie.ac-toulouse.fr/philosophie/ensei/rapportlecourt.htm ), diffuso recentemente anche in Italia.
[10] Cfr. D. Parisi, Otto punti sulla comunicazione della scienza, Jekyll.comm, 1 marzo 2002.
[11] House of Lords, Science and Society, Her Majesty’s Stationary Office, 2000.
[12] Sull’evoluzione del concetto di opinione pubblica a partire da Habermas, cfr. R. Cooter, S. Pumfrey, Science in Popular Culture, History of Science, 32, 1994, 236-267.
[13] L. Wolpert, La natura innaturale della scienza (1992), Dedalo, 1996. Cfr. P. Donghi, Sui generis, Laterza, Bari 2006, p. XIII: «comunicare la scienza significa rendere consapevole l’opinione pubblica del potenziale democratico inerente a questa incertezza, proprio a misura dell’intrinseca fallibilità dell’impresa».
[14] B. De Marchi, M. Tallachini, Politiche dell’incertezza, scienza e diritto, Introduzione a Notizie di Politeia, 70, 2003, p. 3; G. Sturloni,Gestire l’incertezza, Journal of Science Communication, 4, 2004.
[15] Come sembra suggerire Matthews, op. cit.
[16] P. Bourdieu, Le champs scientifique, Actes de la recherche en sciences sociales, 2 (3),1976, pp. 88-140.
⸻ ALLEGATI