Pandemia e cittadinanza critica
UNA RIFLESSIONE IN QUATTRO MOVIMENTI *
I. Immagine filosofica protesa
L’emergenza provocata dalla pandemia ha imposto a tutti noi (vale a dire quasi all’intero mondo) una sorta di discesa alle madri.
Troppo spesso, presi da mille cose e altrettanti impegni, perdiamo sistematicamente di vista la condizione imprescindibile di ogni “fare” e del nostro “stare al mondo”: quella “vita nuda” che non è l’esito di una mortificante riduzione, ma – al contrario – l’oggetto di una consueta dimenticanza, tanto più perseverante quanto più siamo trascinati nella giostra delle nostre incombenze quotidiane. Il corpo – con la sua capacità di reazione e di resilienza, ma anche con le tante fragilità che gli appartengono e che andrebbero rispettate – insorge all’improvviso di fronte a noi dall’oblio imposto dall’agire e (perché no, anche) dall’accudire, quando avvertiamo il pericolo, quando ci sentiamo minacciati dalla malattia o anche dal suo sospetto. Tutti noi sappiamo, però, che il mero esistere sostiene ma non è la vita, così come sappiamo che le fondamenta sono inospitali ma reggono il palazzo in cui è la nostra casa.
Contro questo virus – riconducibile a una famiglia ben nota ai virologi (quella dei coronavirus), ma ancora poco conosciuto perché (a quanto è dato sapere) appena giunto fra noi umani per salto interspecifico da un ospite-serbatoio animale[1] – e la sua straordinaria potenza di diffusione pare non ci sia al momento (questa espressione è d’obbligo qui ma soprattutto ora) alcun’altra misura di profilassi se non il buon (si fa per dire) vecchio isolamento e l’attenzione all’igiene delle mani[2].
I Paesi hanno chiuso i battenti e il lavoro e l’economia sono entrati in sofferenza[3]. Malgrado le rassicurazioni dei governi, l’inaspettata “generosità” (arrivata dopo un iniziale braccio di ferro) delle istituzioni europee e le misure di sostegno all’occupazione e alle famiglie rocambolescamente adottate qui da noi (e ostacolate – apprendiamo – da una burocrazia che evidentemente pretende di conservare nell’emergenza le [s]costumatezze e i tempi dell’ordinaria amministrazione), molti vedono in bilico il proprio posto di lavoro e hanno serie difficoltà economiche.
La discesa alle madri – velocemente iniziata con il rapido precipitare degli eventi – ha preso dunque due direzioni: quella della tutela della salute e quella della salvaguardia del lavoro. Entrambe ci afferrano nel punto più profondo e sensibile del nostro essere: l’una, infatti, riguarda la fonte del nostro stare al mondo; l’altra si riferisce al mezzo che consente alla maggior parte di noi una presa sul mondo, traducibile in un’esistenza all’altezza del nostro progetto di vita. Entrambe sono radicali, seppure diversamente (per lavorare devo essere vivo, ma per vivere debbo lavorare); e lo sono fino a potersi trasformare in fattori propulsivi di eversione.
Come abbiamo visto, al tempo della pandemia – per effetto del lockdown – salute ed economia sono entrati reciprocamente in tensione[4]. Ma questo conflitto non è una necessità assoluta e non è sottoposto a una fantomatica legge di natura. Si decide nei suoi livelli critici in ragione delle scelte politiche che si sono fatte in precedenza e delle misure che si avrà il coraggio di prendere, a sostegno del lavoro, di fronte alla minaccia del virus.
A partire da questi brevi cenni, ciò che ora veramente importa – dal mio punto di vista – è la rimodulazione di quanto ci sta attualmente capitando in un’immagine filosofica che, senza perdere l’aggancio ai fatti, sappia però anche andare oltre di essi. Come ho precisato, quella alle madri (un’allegoria che, confesso, ho deliberatamente rubato al Faust di Goethe) è qui una discesa alle due diverse radici della nostra collocazione nel mondo: la vita e il lavoro. Lo scoppio della pandemia le ha portate in piena luce, insieme alla loro conflittualità, già latente nell’odierno assetto capitalistico, ma ora esplosa con assoluta evidenza di fronte a una massa planetaria di persone. L’irruzione sulla scena della malattia ha reso la cognizione della loro tensionalità contestuale – dunque non assoluta – una consapevolezza ampiamente condivisa. Possiamo ragionevolmente sperare che un grandissimo numero di individui nel mondo abbia compreso (in moltissimi sulla propria stessa pelle) quanto sia fragile la vita e quanto abbia bisogno di essere difesa e curata; quanto sia irrinunciabile avere strutture sanitarie statali funzionali e in numero sufficiente per fronteggiare (bene) il bisogno di cura ordinario e (nel migliore dei modi compatibile con l’emergenza) quello straordinario; quanto sia essenziale (cioè quanto vada all’essenza della cosa) salvaguardare insieme vita e lavoro senza metterli in competizione; quanto sia importate la ricerca scientifica e quella umanistica per migliorare insieme le condizioni di vita e di lavoro; quanto possa essere efficace l’intervento pubblico, che in queste circostanze è l’unico vero antidoto. Inoltre spero sia diventato virale quel fastidio che da tempo immemore avverto dinanzi a una delle parole da sempre più abusate nella discussione pubblica: solidarietà. Un termine dal significato profondo, nobile, che viene però sbandierato a destra e a manca perché suona bene, santifica l’oratore e infiamma l’uditorio; ma, in assenza di concrete politiche economiche e sociali all’altezza del concetto, si svuota e diventa solo un irritante flatus vocis.
Se, come auspico, lo shock subito avrà sollecitato e continuerà a sollecitare una tale coscienza (anche minimale) delle questioni fondamentali appena accennate, allora forse potremo disporre di uno scenario adeguato per un’immagine filosofica della pandemia corrispondente a quella di un evento storico terribile che, mettendo in pericolo l’esistenza e la sussistenza, avrà diffuso su scala planetaria un’esperienza tragica, un orizzonte condiviso di maggiore attenzione e ospitalità per discorsi pubblici incentrati sulla promozione di una libera partecipazione solidaristica (concreta) alla res publica e sulla funzione imprescindibile esercitata dallo Stato e dagli organismi pubblici nel sostenere quella partecipazione stessa. Discorsi dunque di tenore diverso da quelli – un po’ inconsistenti e ascoltati fino alla noia – che magnificano l’autoregolazione ( mitologica, metafisica, teologica, secondo i gusti) del mercato e le virtù dell’imprenditoria privata anche nei settori strategici.
Se questa nostra immagine filosofica della pandemia saprà collocarsi nello scenario sensibile che sembra profilarsi all’orizzonte, allora non sarà un’idea platonica da contemplare, ma una mappa che suggerirà un percorso, un laboratorio di riflessione e di progettazione, insomma un’immagine filosofica protesa, ossia aperta e proiettata verso il futuro. Non servirà certo a “cambiare il mondo”, ma forse a pensarlo in maniera diversa, critica, e a lottare per questo pensiero nel confronto pluralistico con altre posizioni.
II. Isolamento
Di solito siamo abituati a pensare a provvedimenti restrittivi delle libertà individuali come all’anticamera di un’odiosa dittatura.
Nel nostro Paese (ma il fenomeno ha interessato, con diverse declinazioni, gran parte del mondo) la pandemia ci ha fatto sperimentare qualcosa di assolutamente inedito: una strana e virtuosa convergenza fra i decreti del Presidente del Consiglio – che, con dovizia di argomentazioni mutuate dai consulenti scientifico-sanitari[5], prescrivevano isolamento e limitazioni negli spostamenti e nella socialità (distanziamento interindividuale, uso di mascherine sanitarie, ecc.) – e l’assunzione responsabile da parte dei cittadini delle misure di profilassi imposte in quei provvedimenti.
Consapevoli della effettiva mancanza di opzioni alternative all’auto/confinamento per spezzare la catena del contagio, ci siamo trovati ad essere s/oggetti di un auto/disciplinamento che ha avuto i suoi punti di forza nella effettiva gravità della situazione (inizialmente sottovalutata un po’ da tutti, appunto perché inedita e inimmaginabile a fronte della nostra hybris di scalatori del Terzo Millennio), nella provenienza scientifico-sanitaria delle indicazioni comportamentali e nella struttura sintattica (fra Io e Tu) dell’impegno assunto dai singoli cittadini: devo proteggermi dal virus innanzitutto per non ammalarmi, poi per non essere veicolo di contagio per altri, infine per non appesantire i già provati presidi ospedalieri. Insomma – facendo l’occhiolino a Nietzsche – una sorta di ego–altruismo; anche se speriamo si tratti di qualcosa di più, ovvero di una socialità responsabile.
In generale, i governi hanno avuto buon gioco nella gestione della pandemia anche perché nelle circostanze drammatiche in cui ci siamo trovati – unitamente all’autorevolezza “disciplinatrice” dei saperi scientifici – è venuta in aiuto, con tutta la forza della sua seduzione, quella dimensione del potere che Michel Foucault chiama «pastorale»: un concetto e un termine che, importati dalla storia del cristianesimo, si laicizzano nel suo pensiero passando dalla conduzione «alla salvezza nell’aldilà» alla sua garanzia «in questo mondo». Nel contesto politico di arrivo – precisa il filosofo francese – «la parola salvezza assume significati diversi: salute, benessere […], sicurezza, difesa dagli imprevisti»; sicché «una serie di scopi “mondani”» finisce per prendere «il posto degli scopi religiosi del tradizionale ufficio pastorale»[6].
Così ci siamo rinchiusi nelle nostre case per circa due mesi: quindi diversi giorni in più dei quarantadue che nel periodo di carnevale del 1790 Xavier de Maistre trascorse nella sua stanza, agli arresti domiciliari, per aver preso parte a un duello d’onore. Fratello del più famoso e sinistro Joseph – che lo spinse a pubblicare il suo piccolo libro –, Xavier fece di necessità virtù e, approfittando della segregazione comminatagli, si abbandonò «gaiamente» alla sua immaginazione[7], compiendo «un viaggio» intorno alla sua camera[8]. La attraversò in tutte le direzioni e, man mano che in questo suo contenutissimo tragitto incontrava oggetti o soprammobili a lui fin troppo noti, divagava con il pensiero o ne riviveva la storia e le emozioni in lui suscitate. In questo modo, poteva dire a se stesso, non senza aggiungere una palese sfumatura di autocompiacimento: «Mi hanno vietato una città […]; ma mi hanno lasciato l’universo intero»[9]. In pochi metri quadrati e con l’aiuto di «un buon fuoco», di «libri» e penne[10], della memoria e della fantasia, il nostro Xavier riuscì a soddisfare in una maniera molto originale quel «desiderio eterno e mai appagato dell’uomo […] di voler essere laddove non è, di richiamare il passato e vivere nell’avvenire»[11]. Tutto ciò che gli occorreva per un tale viaggio mentale era «un buco» dove si potesse raccogliere e celare al mondo[12].
A noi è andata peggio che a de Maistre. I nostri rapporti intersoggettivi sono stati sventrati dalla necessità di evitare incontri, dal distanziamento interindividuale, dall’uso delle mascherine. I corpi si son dovuti fare da parte, per lasciare il campo alle sole parole sulle pagine virtuali o riprodotte da un microfono e connesse in video all’immagine – spesso traballante – di un volto. La socialità allargata, quella non sostenuta da una convivenza, si è completamente defisicizzata, trasferendosi nella rete, che ha potuto fornire il conforto di una spaesante osmosi fra vicino e lontano[13]. La sofferenza diffusa, che questa condizione forzata ma necessaria ha generato in tutti noi, è il sintomo evidente che, «con buona pace dei seguaci della sig.ra Thatcher, esiste una società»[14]; anzi possiamo dire che proprio perché esiste una società fatta di relazioni professionali, personali e affettive, il coronavirus – che si diffonde svolazzando sulle piccole onde gioiose del nostro bisogno di contatto – è per noi così pericoloso
I nostri “buchi” – le case in cui ci siamo rinchiusi (rinchiusi?) – hanno poco a che vedere con quelli a cui pensava Xavier de Maistre: sono sempre meno chiusi – e questa non è certo una sciagura, se consideriamo il colpo inferto dalla pandemia ai nostri rapporti sociali –, ma di sicuro la loro apertura li rende poco adatti alla concentrazione e al nascondimento, pieni come sono di quel fuori tecnologizzato che ci seduce irresistibilmente a raggiungerlo premendo un tasto del computer, del cellulare o del telecomando. Anche il dentro di de Maistre ha in sé l’esterno: penne, libri, mobili e suppellettili provengono da fuori; ma un racconto letto in un volume lascia trasporre più liberamente la parola in immagine e – in mancanza di altre distrazioni – una matita può sollecitare il ricordo della situazione reale e affettiva in cui fu acquisita (un regalo, l’odore di una cartoleria, ecc.). Se invece noi vogliamo avere un’idea della Praga di Kafka, possiamo farlo agevolmente in rete e troveremo magari anche siti qualificati che ci proporranno antiche fotografie rispecchianti le scelte prospettiche di chi a suo tempo le scattò e di chi le poi ha editate per il web. Questo non è assolutamente un male, può diventarlo se non si ha una consapevolezza anche minimale (dunque non necessariamente completa, ma almeno sufficiente a impostare qualche forma di “distanziamento” o di difesa anche rudimentali) della eteroconfigurazione dei contenuti reperiti nel corso della navigazione e delle implicazioni insidiose (talvolta preoccupanti) insite nell’uso di quelle tecnologie comunicative e informatiche che ormai costituiscono delle vere e proprie protesi della nostra mente.
Rispetto a Xavier de Maistre, noi abbiamo, però, una possibilità che a lui è negata: possiamo provare a calarci in una situazione analoga (solo analoga) alla sua, se spegniamo televisore, computer, cellulare e mettiamo fuori posto la cornetta del telefono fisso. Quanto tempo resisteremmo nel silenzio di questa “smobilitazione”[15]? Probabilmente non molto, ma attraverso questo piccolo esperimento impareremo meglio, credo – e da soli –, a individuare i tratti tipici di un isolamento anticontagio dei primi decenni del XXI secolo. Un isolamento che vorrei in sintesi definire: un dentro pieno di fuori virtuale; uno stato di cose in cui la linea di confine che separa la «sfera pubblica» da quella «privata» – per dirla con Habermas[16] – è diventata ancora più incerta, segmentata e permeabile di quanto non lo sia già nella vita ordinaria connessa[17].
Tuttavia, proprio nel momento in cui la nostra attività online registra un incremento dovuto alla latitanza dei rapporti in presenza e all’esercizio dello smart working (anch’esso imposto per ragioni di profilassi), non si può non accogliere la preoccupazione manifestata da Roberto Mazzola (ma naturalmente non solo sua) circa i pericoli derivanti dal tracciamento di tutte le nostre operazioni in rete e dalla profilazione che ne consegue, utilizzabile a fini commerciali ma anche di controllo. A proposito dello scandalo provocato nel 2013 da Edward Snowden, che divulgò la documentazione relativa all’«attività di sorveglianza di massa organizzata dalla National Security Agency (NSA) dopo gli attentati alle Torri Gemelle»[18], Mazzola osserva:
Il caso Snowden, se da un lato ha suscitato la reazione preoccupata dell’opinione pubblica più avvertita, dall’altro non ha intaccato la nostra dipendenza digitale; continuiamo a ritenere accettabile barattare la trasparenza assoluta delle nostre vite in cambio dell’illusoria gratuità delle comodità dei servizi in rete[19].
Sono assolutamente d’accordo con Mazzola nel ritenere che «la battaglia per la libertà di Internet» non possa trasformarsi «nella lotta per la libertà da Internet»[20]. In attesa che questa battaglia cominci a dare qualche esito, pare che a tutti noi non resti altra scelta che vivere nella contraddizione fra un’insopprimibile «dipendenza digitale» – foriera di indubbie «comodità», non ultima quella di rendere possibile (laddove vi siano le condizioni) il già evocato smart working, che protegge il lavoratore e i suoi colleghi dal pericolo di contagio, consentendo al tempo stesso un risparmio di mascherine e materiali igienizzanti per le sanificazioni sul luogo di lavoro e un alleggerimento della massa di persone in movimento nelle città – e un’apprensione altrettanto inaggirabile per l’uso che giganti o più piccoli predatori della rete possano fare della scia identificativa che tutti noi lasciamo ogniqualvolta transitiamo su Internet. Un’apprensione che potrà essere meglio gestita – ma mai eliminata – con una crescita di consapevolezza generale intorno alla questione nei singoli utenti, la maggioranza dei quali (che annovera anche chi scrive) non raggiungerà mai una competenza specialistica sull’argomento[21].
Per riprendere l’antica e fortunata contrapposizione impostata da Umberto Eco, dobbiamo concludere che al momento non possiamo dirci né totalmente “integrati” né totalmente “apocalittici”: possiamo solo perseverare nella fruizione, unendo all’appagamento dell’integrato la sospettosa vigilanza dell’apocalittico. Il tutto con la certezza tragica – per tutti quelli che non possono o non vogliono impegnarsi in una lotta ardua, bisognosa di competenze specifiche e ramificate – che in questo modo come «forza lavoro gratuita» partecipiamo tutti (traendone però anche significativi vantaggi[22]) a quella «società “collaborativa”» di cui il «massimo beneficiario» è il «capitalismo delle piattaforme»[23].
Quella qui adombrata non è certamente la soluzione del problema (che richiede approcci e strumenti teorici diversi), ma almeno, in presenza di un’utenza sufficientemente informata e anche un po’ smaliziata, costringe la controparte a fornire preliminarmente e in maniera analitica garanzie – che poi andranno verificate, per quanto possibile – in merito al rispetto della privacy.
è quello che è successo quando è stata mediaticamente presentata la App “Immuni” per la protezione dal contagio nella cosiddetta fase 2 (allentamento delle restrizioni di profilassi). Nel nostro Paese, attraverso i media e nella discussione pubblica, si è chiarito che il suo scaricamento sullo smartphone sarebbe stato facoltativo. Certo a questa informazione si è poi prontamente unita anche la precisazione (sollecitante sul piano etico) circa la necessità – per rendere efficace il tracciamento – di un’adesione non inferiore al 60% della popolazione. Abbiamo ricevuto dettagliate rassicurazioni tecniche sulle misure di schermatura delle identità personali e sull’uso assolutamente transitorio della applicazione, che sarà disattivata quando terminerà l’emergenza (ma chi e secondo quali parametri stabilirà la sua cessazione?). Inoltre si è posta pubblicamente la questione relativa al controllo di chi gestirà le informazioni, ai supporti tecnologici su cui transiteranno[24], al pericolo di un sotterraneo e illegale commercio di dati sensibili, alla possibile sotterranea colonizzazione della App da parte di enti di intelligence, che potrebbero trasformare un dispositivo di monitoraggio temporaneo in un sistema stabile di sorveglianza.
Importante, per il discorso che qui si sta svolgendo, non è stabilire se queste comunicazioni siano del tutto veritiere o se lo stile formale sia congruo all’argomento e ai destinatari; in ogni piega si potrà annidare un inganno, che magari qualche intrepido giornalista smaschererà fra un po’ di tempo. Significativo è invece il fatto che, volendo promuovere l’adozione di un software per il tracciamento sanitario non privo di rischi per la privacy, gli esponenti del governo (ritengo in buona fede, ma anche questo non è qui rilevante) si siano preoccupati di raggiungere una densità di informazioni e chiarimenti adeguata alla consapevolezza viva (e anche vivace) – presupposta (e a ragione) nella maggior parte dei cittadini – delle trappole fisiologicamente nascoste o intenzionalmente occultabili nelle procedure digitali. Insomma: più che sulla reale efficacia nella difesa dal contagio, la discussione pubblica – all’altezza del livello attualmente raggiunto da quella che vorrei chiamare cittadinanza critica e su cui intendo ritornare fra poco – sembra essersi concentrata soprattutto (in maniera comprensibilmente paradossale) sulla nostra concreta possibilità di renderci immuni alla App stessa[25].
III. Eroismo
Questa pandemia ha conosciuto morti ed eroi. Il nostro pensiero non può non andare a quanti non ce l’hanno fatta, a quelli che hanno sofferto e sono guariti e ai pazienti attuali, la cui vita è ancora in bilico. Ma – non tralasciando la giusta considerazione per le vittime – la nostra attenzione si concentrerà ora su quelli che unanimemente sono stati considerati gli eroi di questa lotta al virus[26]: i medici e i paramedici, che pure hanno pagato un rilevante tributo di sangue nell’esercizio nobilissimo del loro dovere. Stiamo parlando di morti sul lavoro, non dimentichiamocene.
Per avere un’idea delle condizioni lavorative in cui si è trovato il personale sanitario a Bergamo e dintorni, è sufficiente leggere uno stralcio da una lettera che i medici dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo hanno inviato al “New England Journal of Medicine” il 21 marzo 2020:
La situazione è così grave che siamo costretti a operare ben al di sotto dei nostri standard di cura. I tempi di attesa per un posto in terapia intensiva durano ore. I pazienti più anziani non vengono rianimati e muoiono in solitudine senza neanche il conforto di appropriate cure palliative. […] Nelle zone circostanti la situazione è anche peggiore. Gli ospedali sono sovraffollati e prossimi al collasso: mancano le medicazioni, i ventilatori meccanici, l’ossigeno, le mascherine e le tute protettiva per il personale sanitario . I pazienti giacciono su materassi appoggiati sul pavimento. […] Il personale sanitario è abbandonato a se stesso mentre tenta di mantenere gli ospedali in funzione[27].
Questa testimonianza, riferita a una delle zone più colpite del nostro Paese – ma anche tra le più attrezzate dal punto di vista sanitario[28] –, ci dice che lì è stata tragicamente applicata l’«etica clinica» propria della cosiddetta «medicina delle catastrofi» (« I pazienti più anziani non vengono rianimati e muoiono»), la quale impone che – con una «giustificazione» morale fondata «nella straordinarietà della situazione» – si superi il «criterio di accesso alle cure intensive di tipo first come, first served», per « riservare risorse che potrebbero essere scarsissime a chi ha in primis più probabilità di sopravvivenza e secondariamente a chi può avere più anni di vita salvata ». Si sta parlando, in sostanza, della necessità prevista di dover «porre un limite di età all’ingresso in TI [Terapia Intensiva]». In tali circostanze il documento della SIAARTI (Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva), datato 6 marzo 2020, da cui sono tratte le citazioni (con i corsivi miei), raccomanda di dare «ai pazienti e ai loro familiari» informazioni adeguate sulle ragioni eccezionali che spingono all’adozione di un diverso codice di priorità, e ciò «per una questione di dovere di trasparenza e di mantenimento della fiducia nel servizio sanitario pubblico»[29]. Di sicuro i medici che hanno stilato queste Raccomandazioni di etica clinica saranno stati in assoluta buona fede, ma io mi chiedo (domanda retorica): in una situazione come quella che ora ci siamo lasciati per fortuna alle spalle, caratterizzata da « un enorme squilibrio tra le necessità cliniche reali della popolazione e la disponibilità effettiva di risorse intensive »[30], sarà ancora possibile, per chi ha visto morire il proprio parente anziano – a cui è stato negato quel trattamento intensivo che forse poteva salvarlo – conservare la «fiducia nel servizio sanitario pubblico»? Ma c’è ancora un altro passaggio delle Raccomandazioni che merita di essere letto e poi esaminato, ed è il seguente:
La disponibilità di risorse non entra solitamente nel processo decisionale e nelle scelte del singolo caso, finché le risorse non diventano così scarse da non consentire di trattare tutti i pazienti che potrebbero ipoteticamente beneficiare di uno specifico trattamento clinico[31].
Chiariamolo subito: il 6 marzo le Raccomandazioni della SIAARTI si limitavano solo a prefigurare una situazione drammatica e a preparare il personale sanitario alla dolorosa eventualità (poi non smentita dai fatti, purtroppo) di dover assumere decisioni difficili e in contrasto con la deontologia ordinaria interiorizzata. A condizionare gravemente il «processo decisionale» – che normalmente dovrebbe concentrarsi solo sulla definizione della terapia, contando sulla presenza delle risorse necessarie ad attuarla – è stato proprio quello «squilibrio estremo tra richiesta [di cure] e disponibilità»[32] di strutture e attrezzature per le terapie intensive. Le Raccomandazioni indicano tecnicamente nell’insorgere di quello «squilibrio» il dato destrutturante che impone agli operatori ospedalieri – loro malgrado – le procedure sanitario-pragmatiche di realizzo proprie della «medicina delle catastrofi» e le necessarie correzioni da apportare all’«etica clinica», che – ricordiamolo – non è una mera teoria morale, ma implementa nel personale medico comportamenti concreti e cruciali per il destino dei pazienti.
Sembra però che, di fronte a un’emergenza sanitaria quale quella delineata dall’attuale pandemia – fronteggiata nel nostro Paese (malgrado – pare – qualche inopportuna resistenza iniziale, non priva di serie conseguenze, da parte del mondo imprenditoriale lombardo[33]) con un doveroso ed energico lockdown, la cui funzione è stata quella di ridurre drasticamente il contagio, ma anche quella di scongiurare il pericoloso ingolfamento degli ospedali, che rischiavano altrimenti di collassare –, la rottura dell’equilibrio ordinario fra domanda di cura e risorse strutturali adeguate a soddisfare la richiesta si sia verificata troppo presto. In realtà, la tenuta di un sistema sanitario – che in questi casi si misura (è ciò che si deduce dal documento della SIAARTI) su un’immaginaria asticella graduata che va dallo zero al punto critico in cui si conclama lo «squilibrio estremo» – è questione squisitamente politica. Se i fondi da destinare alla sanità vengono progressivamente tagliati, per risparmiare o spostare risorse dal welfare ad altri capitoli di spesa; se, obbedendo alle logiche imperanti e sciagurate dell’ottimizzazione economica, si pretende di gestire la salute pubblica con criteri aziendalistici (enunciati platealmente persino nel nome dato ai presidi territoriali: ASL – azienda sanitaria locale), invece di considerarla un bene comune, allora su quella asticella il punto critico, che segnerà il necessario passaggio dall’etica clinica consueta a quella straordinaria da adottare nell’ambito della medicina delle catastrofi, si sposterà pericolosamente verso il basso.
I tagli alla sanità pubblica[34] – ispirati dall’ideologia neoliberista dominante –, oltre ad aver provocato seri problemi a pazienti e utenti già nella gestione ordinaria della salute pubblica nel nostro Paese, sono alla base di quella virtù disfunzionale (ossia originata da una carenza strutturale) che è l’eroismo manifestato dal personale sanitario in occasione dell’emergenza pandemica.
Com’è noto, in un contesto assolutamente diverso dal nostro Bertolt Brecht nella Vita di Galileo fa dire al discepolo dello scienziato pisano, Andrea Sarti: «Sventurata la terra che non ha eroi!». Galileo replica qualche battuta dopo: «No. Sventurata la terra che ha bisogno di eroi»[35]. Se trasferiamo le due affermazioni opposte nella nostra situazione, chi dei due ha ragione? In realtà entrambi, se – provando a leggere il fenomeno alla luce della teoria del dono concepita da Marcel Mauss e proseguita dal gruppo del MAUSS – consideriamo l’eroismo un dono di sé che oltrepassa la retribuzione prevista per una prestazione lavorativa. A questo proposito, ritengo condivisibile l’osservazione di Alain Caillé e Jacques Godbout, secondo cui
le imprese, la pubblica amministrazione o lo Stato […] vacillerebbero se dei salariati non dessero più di quel che frutta il loro salario, se dei funzionari non dessero prova di un qualche senso del servizio pubblico[36].
Quindi in circostanze “normali” possiamo essere tutti un po’ eroi, quando, in nome del valore attribuito a un “lavoro ben fatto”, nel corso delle nostre prestazioni professionali ci capita di dedicare tempo, competenze e sforzi che vanno oltre l’orario di servizio e lo schematico mansionario corrispondenti all’entità del compenso previsto. Naturalmente, come avviene per ogni dono, questo “di più”, che a suo tempo (e in un contesto teorico diverso e meno tragico) proposi di chiamare plusvalore donativo[37], si avverte intuitivamente con autoevidenza, ma, non potendo essere rapportato a parametri quantitativi di riferimento, si sottrae a una precisa monetizzazione: tant’è che a un dono si risponde eventualmente con un controdono[38].
Ma si sa, l’eroismo – così come lo intendiamo comunemente – ha a che fare con qualcosa di straordinario. E infatti straordinario, fino in molti casi al sacrifico della vita, è stato il dono di sé che nel fronteggiare la pandemia medici e paramedici del nostro Paese (e non solo del nostro) hanno fatto ai pazienti e a tutti noi. Le deficienze del nostro sistema sanitario, venute chiaramente alla luce con l’insorgere dell’emergenza e denunciate dai medici di Bergamo, hanno però costretto il personale sanitario, intenzionato a svolgere nel migliore dei modi il proprio lavoro, a dover sopperire alle mancanze con un considerevole incremento di plusvalore donativo e di stress.
Una quota della grande ed esemplare abnegazione di questi professionisti è – come sostenevo prima – di origine disfunzionale: questo li rende ancora più eroi, ma li ha fatti anche sentire abbandonati a se stessi.
Ritengo che questa anomalia e l’emergenza epidemica nel suo complesso debba suscitare una riflessione politica, soprattutto a sinistra. A quanti non lo capivano o per convenienza facevano finta di non intenderlo, la sanità al tempo della pandemia si è rivelata per quello che è: un bene comune troppo importante e strategico per essere superficialmente consegnato al profitto dei privati. Il disinvestimento pubblico in questo ambito, come in quello collegato della ricerca, si traduce inderogabilmente in un’aggiunta di sofferenza per chi già soffre, e tutti noi – prima o poi – ne pagheremo il caro prezzo. Nel nostro Paese il senso di socialità e solidarietà è piuttosto forte: bisogna saperlo sostenere con politiche concrete di socialità e solidarietà. Dal canto suo, lo Stato dovrà avere il coraggio di rilanciare e rifondare la propria preminenza finanziaria, gestionale e distributiva nel settore dei beni comuni e strategici (salute pubblica, formazione, ricerca, energia, comunicazioni, ecc.). Questo presuppone – naturalmente – che vi possa essere sul piano nazionale ed europeo un rilancio dell’ingegno progettuale[39] proprio della politica alta (e alternativa) contro le argomentazioni pseudonaturalistiche dell’economia di mercato.
IV. Cittadinanza critica
In un breve scritto di Immanuel Kant del 1798, dal titolo fortemente emblematico al tempo della pandemia,Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio, si legge:
Sarebbe offendere la maestà del popolo britannico affermare che esso è una monarchia assoluta, mentre si pretende che abbia una costituzione che limita la volontà del monarca mediante le due Camere del Parlamento in rappresentanza del popolo; eppure ognuno sa bene che l’influenza del monarca su questi rappresentanti è così grande e così infallibile, che da queste Camere non si decide altro che ciò che egli vuole e propone per mezzo dei suoi ministri: […] [il re] potrà fare proposte che egli sa già che saranno contrastate […], o addirittura procurare che ciò avvenga, per dimostrare in forma visibile la libertà del Parlamento. […] Una pubblicità menzognera inganna il popolo con la lusinga di una monarchia limitata dalla legge da lui steso voluta, mentre i suoi rappresentanti, corrotti, lo hanno segretamente sottoposto a una monarchia assoluta[40].
Come si può constatare, la feroce analisi kantiana della perversione imposta al funzionamento degli organismi istituzionali britannici individua due diverse categorie di destinatari di una «pubblicità menzognera »: 1) quelli in grado di smascherarne l’inganno («ognuno sa bene »); 2) «il popolo», che in buona fede – e per ignoranza – non si accorge che l’architettura costituzionale codificata per il proprio Paese viene concretamente manovrata in maniera tale da nascondere una monarchia assoluta di fatto.
Tutti noi sappiamo che la complessità della nostra epoca e dei media consente forme di occultamento e di controllo molto più sofisticate di quella denunciata dal filosofo di Königsberg[41]. Ma – a differenza sua – possiamo indicare nella scolarizzazione diffusa uno strumento efficace per formare soggetti desiderosi di comprendere e in grado di orientarsi – seppure a un livello basico – nella gestione della molteplicità (spesso eccessiva, e perciò problematica) di informazioni, a cui tutti noi (o quasi) oggi possiamo avere accesso agevolmente. La mole di notizie da cui siamo quotidianamente sommersi richiede, certo, l’adozione di un principio di selezione per potersi districare, ma soprattutto deve incontrare nel fruitore una consapevolezza – anche elementare – della onnipresente configurazione prospettica dei dati in base agli interessi e alle opzioni politiche operanti nella fonte. La scuola di base (che deve essere statale, se vuole essere veramente efficace e seriamente pluralista) può avere un ruolo molto rilevante nell’“educare” i singoli a compiere scelte libere, fondate su di una sufficiente cognizione di causa[42]. Avviata in giovane età, la costruzione autonoma e individuale di un pensiero critico potrà continuare in vista di un’autoformazione costante che duri un’intera vita. In un tale processo non si può fare a meno di quei requisiti filologici minimali che consentono di penetrare quanto basta in un testo (una circolare amministrativa, un articolo di giornale o di legge, un saggio, un romanzo, ecc.), ma anche di svelare ciò che in esso «può risultare nascosto, incompleto, mascherato o distorto»[43]. Qui non si tratta di fornire un orientamento (sarebbe l’ennesima tecnica disciplinare, ammonirebbe Foucault), ma strumenti, a chi è nell’età della formazione, per potersi orientare in relativa libertà e autonomia nelle diverse situazioni della vita personale e associata. Così innescato, un pensiero critico in costante movimento potrebbe rappresentare un presidio dialettico di tutela individuale e collettiva, di partecipazione o di tensionalità costruttiva in tutte le varie tipologie di assetto economico-politico: dal capitalismo liberale alla socialdemocrazia radicale o alla «terza tappa del comunismo», prefigurata da Alain Badiou e successiva a «quella, brillante, della sua invenzione e quella, interessante ma finalmente sconfitta, della sua sperimentazione statale»[44]. La necessità che una cittadinanza critica si sviluppi trasversalmente, con modalità differenziate, in ogni tipo di società nasce da una semplice constatazione: la storia non sembra conoscere stazioni d’arrivo definitive e compiute, e quand’anche tali paradisi in terra fossero concepibili, non li si potrebbe pensare come realtà edeniche senza difetti e non bisognose di riforme o innovazioni, che, in mancanza di un’iniziativa dall’alto, potrebbero avvalersi di una spinta dal basso. Persino nel mondo spirituale più perfetto, retto da una suprema divinità, l’uomo non ha potuto fare a meno di immaginare il sopruso (più o meno presunto) e la conseguente ribellione: quella dell’angelo Lucifero, poi divenuto demone della rivolta con il nome di Satana[45].
Nel lungo percorso dell’esistenza, a promuovere una consapevolezza sempre più articolata del mondo (reale e virtuale) circostante potrà contribuire il giornalismo di denuncia (su carta, in televisione o in rete), la saggistica mirata, un romanzo, le opere d’arte, il teatro e quant’altro sappia spingere un soggetto a esplorare e comprendere il mondo circostante, sollecitando in lui una riflessione su ciò che avrà scelto di leggere, vedere o ascoltare, o magari inducendolo a una sua personale avventura di ricerca. Ma questo processo incessante di crescita, qui delineato in generale e auspicato affinché aumenti sempre di più il numero di quelli che possano traslocare – per riprendere la differenziazione kantiana – dalla massa del popolo a quella di coloro che sanno bene, non può avvenire in solitudine. A quegli spazi casuali che favoriscono l’incontro e la discussione, più o meno già esistenti nelle nostre città, altri se ne dovrebbero aggiungere messi liberamente a disposizione dei cittadini dalle amministrazioni locali, che potrebbero destinare alcuni di quelli già disponibili all’aggregazione e alla discussione pubblica su temi proposti da gruppi, associazioni, ecc. Potrebbe essere questo un modo – sia detto solo di passaggio – per «integrare la democrazia rappresentativa con quella deliberativa e partecipativa»[46].
Certo può sembrare quantomeno insolito, in tempi di pandemia, evocare assembramenti di persone che dibattono fra loro in luoghi chiusi; ma prima o poi l’emergenza che impone come misura fondamentale il distanziamento dovrà finire e la nostra socialità ordinaria, che ora sfreccia sulle autostrade telematiche, dovrà pur ritornare a un’articolazione più equilibrata fra realtà vivente e realtà virtuale.
Dunque una cittadinanza critica, consapevole dei propri diritti e doveri, capace di fruire in maniera gratificante di tutto ciò che la circonda, in possesso di uno strumentario sufficiente, ma sempre in ampliamento, a intuire le principali situazioni di pericolo, pronta anche alla rivolta di matrice camusiana, quando le cose “vanno troppo in là” e non se ne può più[47]. L’aggettivo, che qui si è aggiunto e che connota la cittadinanza , si riferisce naturalmente all’esercizio di una critica intesa come (indico solo due aspetti, carichi di un forte riverbero kantiano): 1) esigenza di vagliare i nostri comportamenti e le scelte personali o le eventuali prescrizioni eteronome che li implementano o li governano (ad es.: quelle derivanti da «discorsi veri» o indebitamente dichiarati tali, che sempre «portano con sé effetti specifici di potere»[48]); 2) cognizione dei limiti che la stessa critica deve riconoscere – quando, ad es., si imbatte in uno scacco strutturale o momentaneo della conoscenza[49] – e deve porsi, se non vuole tradursi in ipercritica autodistruttiva, in antagonismo ad oltranza, stereotipato e inconcludente (quello di chi, a furia di cancellare tutto, resta poi solo con la penna rossa in mano)[50].
Una siffatta cittadinanza critica è sempre il risultato (per fortuna) imprevedibile della declinazione personale di una serie di sollecitazioni che non necessariamente devono rimanere isolate e disintermediate. Può essere promossa in tanti modi: a) innanzitutto con la reale rimozione – prevista dalla nostra Carta Costituzionale (art. 3) – degli «ostacoli […] che […] impediscono […] il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti […] all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»; b) con il potenziamento – insisto – della scuola pubblica, intesa quale luogo di formazione personale e culturale in cui la l’apprendimento dei metodi di ricerca e produzione del sapere possa convivere con la necessaria acquisizione delle conoscenze accumulate; c) con il reinserimento nelle università, accanto alla frontalità della lezione, della dimensione seminariale della ricerca socializzata con gli studenti[51]; d) con la costruzione – lo ribadisco ancora – sui territori di una rete di luoghi destinati all’incontro, alla libera discussione, alla lettura in comune, di cui potrebbero essere protagoniste, per fare solo un esempio, le biblioteche comunali, diffuse capillarmente sul nostro territorio. Sono solo alcune proposte, altre se ne potranno aggiungere. Si tratta di un processo di crescita individuale e collettiva proiettato sulla socialità, sulla partecipazione: stili (politici) di comportamento e forme di mentalità che non dovrebbero riscoprirsi solo nelle emergenze (specie se sanitarie), ma sostanziare la nostra vita in comune, potendo nel contempo generare la necessaria base di consenso per concrete e veramente sentite (e perciò autentiche) politiche antiliberiste di solidarietà.
Certo non sono cose da poco, ma non sono nemmeno tanto grandi da essere irrealizzabili, soprattutto se nel nostro Paese si continuerà a tenere desta l’attenzione, suscitata dalla pandemia, sulla forza dell’intervento pubblico; perché è fuori di ogni dubbio che «solo lo Stato [insieme a una rinsavita Europa – aggiungo qui alle parole di Eva Illouz] può gestire e superare una crisi di tale portata»[52] come quella sanitaria ed economica che stiamo vivendo.
Beninteso, la cittadinanza critica, che qui si è tentato di delineare sommariamente, non è la risposta alle insidie del nostro mondo reale e virtuale – alcune delle quali sono venute in piena luce per effetto dell’emergenza. è solo uno dei modi (altri ce ne saranno probabilmente) di stare di fronte a quelle stesse insidie: una condizione (attrezzata) di possibilità per potervi reagire creativamente, escogitando di volta in volta risposte inedite e diverse, singole o collettive, spontanee oppure organizzate.
aprile – maggio 2020
[online 04/06/20]
* Questo saggio è stato concepito e scritto nel periodo del lockdown nel nostro Paese, fra l’aprile e il maggio del 2020. Successivamente è stato lievemente ritoccato. Alcune sue parti sono sensibili alle sollecitazioni del momento e tentano di rispondervi in qualche modo; altre sono di più lungo respiro – almeno per me – e probabilmente saranno riprese nei lavori che ho in programma per il prossimo futuro.
[1] Sul rischio di epidemie zoonotiche, a cui (pare) saremo sempre più esposti per effetto degli squilibri ecologici planetari provocati dalla mano dell’uomo, cfr. il volume divulgativo di D. Quammen, Spillover. L’evoluzione delle pandemie (2012), tr. it. di L. Civalleri, Milano, Adelphi, 2014. «Nessuno degli esperti – scriveva “profeticamente” Quammen otto anni fa – contesta il fatto che il prossimo Big One, se accadrà, sarà una zoonosi» (ivi, p. 529). Su alcuni stili di vita sbagliati (soprattutto alimentari), che possono provocare pandemie, cfr. – in questoOsservatorio – M. Sanna , Domani. Quale passato per il nostro futuro?.
[2] Lavarsi spesso le mani: sembra un fatto intuitivamente scontato per noi. Ma non è sempre stato così, se solo pensiamo che all’Ospedale generale di Vienna (ma il fenomeno era diffuso in tutta Europa), nei padiglioni di Ostetricia, intorno alla metà dell’Ottocento molte giovani partorienti venivano infettate e morivano semplicemente perché i medici, dopo aver sezionato i cadaveri a scopo didattico, le visitavano senza lavarsi le mani. Un giovane e brillante clinico ungherese, Ignác Fülöp Semmelweis (1818-1865), individuò il problema e suggerì l’igienizzazione delle mani con il cloruro di calce nel passaggio da una prestazione professionale all’altra – argomentando alcuni anni dopo la sua tesi in un ponderoso volume –, ma fu ferocemente dileggiato e ostracizzato dalla comunità scientifica del tempo, malgrado avesse ottenuto risultati considerevoli (ossia salvato vite umane) verificando sperimentalmente la sua ipotesi. Ancora per diversi anni i suoi colleghi continuarono a uccidere puerpere, ostinandosi a non volersi lavare le mani. La vicenda storica è splendidamente narrata nella tesi di laurea in medicina di Louis-Ferdinand Céline ( Il dottor Semmelweis – 1924 –, tr. it. di O. Fatica e E. Czerkl, Milano, Adelphi, 1975).
[3] Thomas Piketty sostiene che «senza un intervento, il covid-19 avrebbe potuto provocare la morte di circa quaranta milioni di persone nel mondo […]. Pressappoco un anno di mortalità supplementare» ( Un nuovo stato sociale per uscire dalla crisi, in “Le Monde”, 26 aprile 2020, in rete).
[4] «Scongiurare le sofferenze causate dal virus – scrive il politologo statunitense George Friedman – richiede isolamento e collasso economico» (Non possiamo smettere di amarci e di ucciderci , in “Limes”, 3, marzo 2020, pp. 123-130, qui p. 127).
[5] Va ricordato che, in generale, l’art. 41, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (2000) stabilisce «l’obbligo per l’amministrazione di motivare le proprie decisioni».
[6] M. Foucault, Perché studiare il potere: la questione del soggetto (1983), in Id., Poteri e strategie. L’assoggettamento dei corpi e l’elemento sfuggente , a cura di P. Dalla Vigna, Milano, Mimesis, 1994, pp. 103-114, qui p. 112. Sulla stretta connessione fra governamentalità e potere pastorale si veda nello stesso volume La “governamentalità”, pp. 43-67, in part. pp. 65-67.
[7] Cfr. X. De Maistre, Viaggio intorno alla mia camera (1795), a cura di N. Muschitiello, Milano, Rizzoli, 1991, p. 44.
[8] Cfr. ivi, p. 41.
[9] Ivi, p. 141.
[10] Cfr. ivi, p. 48.
[11] Ivi, p. 57.
[12] Cfr. ivi, p. 41.
[13] «Stiamo sperimentando una socialità sostitutiva: l’uso di Internet è più che raddoppiato; i social media sono diventati i nuovi salotti; […] il consumo di Netflix e Amazon Prime Video è letteralmente esploso; gli studenti di tutto il mondo ora frequentano corsi virtuali attraverso “Zoom”. Insomma, questa malattia […] è anche la festa delle tecnologie virtuali. Sono convinta che, nel mondo post-Coronavirus, la vita virtuale a distanza avrà conquistato una nuova autonomia – ora che siamo stati costretti a scoprirne le potenzialità». Queste parole della sociologa francese Eva Illouz ( Storie virali. L’insostenibile leggerezza del capitalismo per la nostra salute , Atlante Treccani, il portale del sapere, in rete, pp. 1-26, qui p. 20) contengono constatazioni evidenti e una condivisibile esortazione a monitorare i nostri costumi digitali nel periodo successivo all’emergenza pandemica. Possiamo solo attendere e rimanere vigili. Nel frattempo apprendiamo dai giornali che Twitter – inaugurando scelte che potrebbero rivelarsi epocali (non sappiamo ancora se nel bene o nel male) – ha deciso di consentire ai propri dipendenti di rimanere in smart working finché lo vorranno (cfr. R. Luna, Rivoluzione Twitter: lavorare da casa sarà una libera scelta , in «la Repubblica», XLV, 114, 14 maggio 2020, p. 23).
[14] G. Pasquino, I politici che bluffano oggi preparano tempi peggiori, in rete sul sito dell’Accademia dei Lincei.
[15] Cfr. M. Ferraris, Mobilitazione totale, Roma-Bari, Laterza, 2015.
[16] Cfr. J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica (1962), tr. it. di A. Illuminati, F. Masini e W. Perretta, riv. da M. Carpitella, Roma-Bari, Laterza, 20067, in part. pp. 52 sgg.
[17] La strutturale apertura mediatica del nostro isolamento pandemico – rispetto a quello pre-tecnologico di de Maistre – è attesta paradigmaticamente dal racconto quotidiano della quarantena riportato nel volume (un po’ pletorico, in verità) di Fang Fang, Wuhan. Diari da una città chiusa (2020), tr. it. di C. Chiappa, Milano, Rizzoli, 2020.
[18] R. Mazzola, Note su Internet e democrazia, in S. Caianiello (a cura di), Rete e democrazia, in “Ispf-Lab Laboratorio dell’Ispf”, XVI, 2019, www.ispf-lab.cnr.it, pp. 97-109, qui p. 107 (poi in R. Mazzola, Pratiche digitali & cultura umanistica, Napoli, Diogene, 2020, pp. 61-78, qui p. 75). Perplessità analoghe a quelle di Mazzola esprime Wolfgang Sofsky, che scrive: «Le persone lasciano più tracce di quanto immaginano. Oggi l’incessante sorveglianza non viene praticamente avvertita dalla maggior parte delle persone. […] Da un pezzo [la gente] si è abituata alle telecamere, alle tessere degli sconti e ai messaggi pubblicitari. […] Le telecamere promettono sicurezza, i servizi informatici offrono comodità. A parte qualche sporadica seccatura, il cittadino trasparente apprezza le facilitazioni dell’era digitale. Senza esitazioni rinuncia a essere inosservato, anonimo, inaccessibile. Non avverte la perdita di libertà personale. Se a intervalli regolari non venissero cancellati certi dati e fatte sparire certe tracce, gli esseri umani sarebbero reclusi nel carcere della loro storia. Queste prospettive però non sembrano spaventare nessuno» (Id., In difesa del privato – 2007 –, tr. it. di E. Picco, Torino, Einaudi, 2010, pp. 10-11).
[19] R. Mazzola, Note su Internet e democrazia, in S. Caianiello (a cura di), Rete e democrazia, cit., p. 104 (in R. Mazzola, Pratiche digitali & cultura umanistica , cit., p. 74).
[20] Ivi, p. 102 (ivi, p. 67).
[21] Sul peso che la consapevolezza dei singoli individui può avere nell’elaborare procedure di autodifesa dal controllo esercitato nel web insistono anche Guido Caldarelli ( Le reti nel mondo odierno: impatto su informazione e democrazia di questa nuova forma di aggregazione , in S. Caianiello – a cura di –, Rete e democrazia, cit., pp. 48-55, in part. p. 55) e Luciano Fasano ( La rappresentanza politica e degli interessi fra dis-intermediazione e re-intermediazione: un primo bilancio , ivi, pp. 70-83, in part. p. 82). Non condivido affatto le affermazioni di Yuval Nohah Harari – troppo ottimistiche, in verità – circa l’equipotenza nel controllo reciproco fra governati e governanti. «La stessa tecnologia di sorveglianza – scrive lo storico israeliano – può di solito essere utilizzata non solo dai governi per monitorare gli individui, ma anche dagli individui per monitorare i governi» (The World after Coronavirus, in “Financial Times”, 20 marzo 2020, in rete, p. 6).
[22] Questo induce a pensare che nelle maglie (piuttosto larghe, direi) di quella concentrazione oligarchica del potere in rete nelle mani dei tre colossi – Google, Facebook e Amazon (cfr. su questo punto R. De Rosa, Digital persona, big data e sfera pubblica. Quali sfide per la democrazia che verrà , in S. Caianiello – a cura di –, Rete e democrazia, cit., pp. 56-69, in part. pp. 68-69) – spazi di democrazia su Internet (frutto di compromesso) siano tuttavia ancora disponibili. Penso – per fare solo un esempio fra i tanti – alla possibilità (un tempo inimmaginabile) di reperire musica su YouTube (di proprietà di Google) e di caricarvi contenuti anche di denuncia. Nei giorni della quarantena – sempre su YouTube – si potevano reperire video, girati a Napoli con i cellulari da privati cittadini, che documentavano l’impossibilità in alcuni casi di mantenere il distanziamento anticontagio sui mezzi pubblici, e ciò per le annose carenze strutturali di cui soffre la mobilità in questa città. Si tratta di un caso riconducibile a quel fenomeno noto comecitizen journalim, su cui cfr. M. Del Santo, Evoluzione tecnologia del “medium fotografico” e società, in “Fronesis”, X, 19, gennaio-giugno 2014, pp. 57-69, in part. pp. 66-67. Inoltre va ricordato che in Cina il divieto di divulgare senza autorizzazione i dati sull’epidemia – imposto il 30 dicembre 2019 dalle autorità – è stato aggirato attraverso le chat fornite dai servizi di messaggistica (cfr. Aa.Vv., I segreti di Wuhan e i 65 giorni che hanno cambiato la storia del mondo , 14 maggio 2020, sul sito del quotidiano “la Repubblica”). Attuare, personalizzandole in senso (micro)democratico, le potenzialità insite nella rete (certo contribuendo in tal modo anche a sostenerne le perversioni) non elimina la questione delle satrapie informatiche, ma consente di implementare nel presente stato di cose possibili strategie localizzate per l’“appropriazione” delle opportunità consentite. In tal senso un esempio significativo – di stampo un po’ più battagliero – è la “Biblioteca Napoletana Digitale” (Bina, http://www.bibliotecanapoletana.it), concepita da Roberto Mazzola per sottrarre a Google il monopolio nella gestione in open access della produzione libraria realizzata a Napoli nei secoli XVII e XVIII (cfr. R. Mazzola, Biblioteca Napoletana Digitale (secc. XVII- XVIII), in Id., Pratiche digitali & cultura umanistica, cit., pp. 91-99).
[23] S. Caianiello, Rete, democrazia e complessità, in Id. (a cura di), Rete e democrazia, cit., pp. 7-47, qui p. 18.
[24] Su questo punto e sulle regole stabilite dalla Commissione UE per la progettazione di un’App sanitaria cfr. in rete C. Frediani, Contact Tracing: scontri e domande, in “Guerre di Rete – una newsletter di notizie cyber”, 67, 19 aprile 2020.
[25] Molto pertinente e incisiva è l’osservazione di Evgeny Morozov, che, a proposito della prevenzione tecnologica del contagio, nota come la centralità nel dibattito pubblico italiano delle questioni connesse al «compromesso tra privacy e salute pubblica» dipenda dal fatto che «le infrastrutture digitali di cui disponiamo sono costruite da aziende tecnologiche per favorire i loro affari», vale a dire «per identificarci e fare di noi micro-bersagli d’interesse commerciale» ( L’emergenza sanitaria e il rischio del totalitarismo, in “Internazionale”, 1352, 3 aprile 2020, pp. 39-40, qui p. 40). I rischi, però, si corrono anche in paesi con diverse forme di governo e costumi socio-culturali meno sensibili alla protezione della riservatezza individuale: lì magari per le «infrastrutture digitali» disponibili i «microbersagli» potrebbero essere non tanto «d’interesse commerciale», ma piuttosto politico e con finalità di controllo e disciplinamento ideologici (sulla gestione analogico-digitale dell’epidemia in Cina e Corea del Sud – interessante contraltare – cfr. i contributi piuttosto equilibrati di D. Shen, Così la Cina sta vincendo la partita del coronavirus, in “Limes”, 3, cit., pp. 59-68; F. Santelli, Grande fratello con termometro, ivi, pp. 91-97; A. De Benedittis, Disciplina e tecnologia, il virus sotto il 38° parallelo, ivi, pp. 239-245). Nel corso del suo articolo Morozov – polemizzando a distanza con Harari – si scaglia con veemenza contro la funzione affrancatrice del sapere. Devo confessare che non ho nulla contro l’idea di un’emancipazione (per quanto possibile) autonoma attraverso la conoscenza, a patto che quest’ultima non sia intesa come un’elargizione proveniente dall’alto (il che potrebbe configurarsi come una forma di manipolazione delle coscienze), ma come il risultato di un’acquisizione critica che consenta ai singoli cittadini di potersi difendere dai pericoli della rete (e non solo da questi). In attesa di mutamenti strutturali nel nostro mondo (e forse anche come condizione per avviarli), credo valga la pena di lavorare affinché si determini in tutti noi un incremento di cittadinanza critica.
[26] Al termine guerra (al virus) – fortemente evocativo e forse capace di compattare il fronte contro il nemico comune, ma denso di sfumature negative (cfr. in proposito L. di Pace – R. Pannain, “In prima linea”. Una breve riflessione sulla metafora bellica nella comunicazione sulla pandemia da coronavirus , in questo Osservatorio) –, preferisco lotta, nel cui spettro semantico più ampio è contenuta anche l’idea più realistica di un conflitto che muterà nel tempo e non terminerà improvvisamente, come invece avviene solitamente nelle guerre, con la sancita cessazione delle ostilità. Contro «troppo facili speranze – scrive Slavoj Žižek, e non gli si può dare torto –, la prima cosa da accettare è che la minaccia [pandemica] è qui per rimanere a lungo» ( Coronavirus es un golpe al capitalismo al estilo de “Kill Bill” y podría conducir a la reinvención del comunismo , in Aa. Vv., Sopa de Wuhan. Pensamiento contemporaneo en tiempos de pandemias , Online, ASPO, 2020, pp. 21-28, qui p. 25). Bisogna, inoltre, fare i conti (come i virologi ci ricordano) con il fatto che i risultati dei comportamenti anticontagio si vedono e si possono verificare solo in un futuro prossimo.
[27] “BergamoNews”, quotidiano online, tr. it. di F. Sabatini (la versione italiana è stata da me lievissimamente ritoccata; i corsivi sono miei).
[28] Cfr. P. Colaprico, Le cinquanta giornate di Milano, in “Limes”, 3, cit., pp. 203-211.
[29] Cfr. SIAARTI, Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili , pubblicato in rete il 6 marzo 2020, pp. 3 e 5. Il documento – è doveroso qui chiarirlo – precisa «che l’applicazione di criteri di razionamento è giustificabile soltanto dopo che da parte di tutti i soggetti coinvolti» siano «stati compiuti tutti gli sforzi possibili per aumentare la disponibilità di risorse erogabili (nella fattispecie, letti di Terapia Intensiva) e dopo che» sia «stata valutata ogni possibilità di trasferimento dei pazienti verso centri con maggiore disponibilità di risorse» (ivi, p. 3).
[30] Ibidem .
[31] Ibidem .
[32] Ivi, p. 5. Su questo aspetto tragico dell’emergenza pandemica è intervenuto anche Salvatore Settis (cfr.Città senza confini?, in M. Cannata – a cura di –, La città per l’uomo ai tempi del Covid-19, Milano, La nave di Teseo, 2020, pp. 171-205, in part. pp. 200 sgg.).
[33] Cfr. P. Berizzi, Pressing degli industriali sul governo per non chiudere la Val Seriana , ne «la Repubblica», XLV (12 giugno 2020), 138, p. 4; Id., L’inchiesta di Bergamo punta su imprenditori e vertici regionali , ivi, XLV (14 giugno 2020), 140, p. 13.
[34] Cfr. E. Dusi, Cronaca di un disastro annunciato, in “Limes”, 4, aprile 2020, pp. 341-348, in part. p. 343.
[35] B. Brecht, Vita di Galileo (1955-56), a cura di G. Oneto, tr. it. di E. Castellani, Torino, Einaudi, 1994, pp. 215 e 217.
[36] J.T. Godbout – A. Caillé, Lo spirito del dono (1992), tr. it. di A. Salsano, Torino, Bollati Boringhieri, 1993, p. 20.
[37] Cfr. R. Diana, Il dono in concerto. Una riflessione sul “plusvalore donativo” nel lavoro di un solista , in L.M. Sicca (a cura di), I linguaggi dell’organizzare. Musica e testo tra dono e disinteresse , Napoli, Editoriale Scientifica, 2013, pp. 49-64.
[38] Vorrei aggiungere che anche un controdono in denaro resta ancora paradossalmente un dono, perché l’ammontare della somma non è computato in riferimento a una tabella salariale, ma è stabilito da una valutazione personale del controdonatore in base al valore che ha riconosciuto al dono ricevuto.
[39] Qui l’ingegno è inteso in senso squisitamente vichiano, come quella «facoltà di unificare cose separate, di congiungere cose diverse» (G. Vico, De antiquissima italorum sapientia – 1710 –, tr. it. e cura di M. Sanna, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2005, cap. VII, § 3, p. 119), la cui connessione richiede talento, immaginazione, intelligenza, perché non si mostra semplicemente al primo sguardo.
[40] In I. Kant, Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto , tr. it. di G. Solari e G. Vidari, a cura di N. Bobbio, L. Firpo e V. Matthieu, Torino, Utet, 19953, pp. 213-230, qui pp. 224-225 (corsivi miei misti a quelli dell’autore).
[41] Basti pensare alla transizione – segnalata da Harari e implementata dalla pandemia – nei sistemi di sorveglianza, che passano, con la rapida misurazione della temperatura corporea, da un controllo «over the skin» a uno «under the skin». Oltre alla febbre – nota lo storico israeliano –, con un braccialetto biometrico si potrebbero rilevare anche sentimenti ed emozioni e dunque (ad es.) le reazioni interiori (che per prudenza potremmo nascondere) mentre si ascolta il discorso di un leader politico. Un tale scenario distopico può essere già spaventoso, se immaginato in una società democratica che incentivasse l’adozione facoltativa di un tale dispositivo; ma può esserlo ancora di più, se proiettato in un regime autocratico o totalitario che obbligasse i suoi cittadini a indossare quel braccialetto (cfr. The World after Coronavirus, cit., p. 3).
[42] Sulla necessità di destinare risorse pubbliche consistenti alla scuola, intesa come «vaccino per l’infodemia» (ossia la diffusione per contagio di informazioni scorrette o false), cfr. N. Grandi – A. Piovan, Coronavirus: un contagio (anche) informativo, in “MicroMega”, 3, 2020, pp. 39-48, in part. p. 48.
[43] E.W. Said, Il ritorno alla filologia (2000), in Id., Umanesimo e critica democratica (2004), a cura di G. Baratta, tr. it. di M. Fiorini, Milano, il Saggiatore, 2007, pp. 83-108, qui p. 85.
[44] A. Badiou, Sulla situazione epidemica, tr. it. di P. Quintili, ora in questo Osservatorio, p. 4. Sulle posizioni di Badiou (di cui andrebbe visto anche L’ipotesi comunista – 2009 –, tr. it. di L. Boni, A. Cavazzini e A. Moscati, Napoli, Cronopio, 2011) cfr. poi anche, sempre in questo Osservatorio, P. Quintili, La novità «antidiluviana» di una pandemia mondiale. Dialogo sul Covid-19 .
[45] Su questo tema si veda lo splendido affresco epico di John Milton nel Paradiso perduto (1667-74). Un breve schizzo, “inequivocabilmente” equanime, del rapporto opaco fra governo e cittadini in situazioni eccezionali nella vecchia Jugoslavia comunista, come nella Cina attuale, offre Slavoj Žižek ( Un nuovo comunismo può salvarci, in “Internazionale”, 21 marzo 2020, in rete).
[46] S. Petrucciani, Democrazia, Torino, Einaudi, 2014, p. 224. Un sintetico ma efficace intervento sulla necessità di ripensare l’architettura cittadina in direzione di un’apertura alla socialità è quello di C. Landi, Come ripensare luoghi a misura di essere umano, in “Left”, 19, maggio 2020, pp. 28-29. Una maggiore attenzione meriterebbero le periferie, che spesso conoscono solo i centri commerciali come (non-) luoghi di «socialità artificiosa» (cfr. F. Purini,Alcune questioni urbane, in M. Cannata – a cura di –, La città per l’uomo ai tempi del Covid-19, cit., pp. 144-161, in part. pp. 154 sgg.).
[47] Cfr. A. Camus, L’uomo in rivolta (1951), tr. it. di L. Magrini, Milano, Bompiani, 1994, p. 17.
[48] M. Foucault, Corso del 14 gennaio 1976, in Id., Microfisica del potere. Interventi politici, a cura di A. Fontana e P. Pasquino, Torino, Einaudi, 1977, pp. 179-181, qui p. 180.
[49] Sulla necessità che, proprio per conservare credibilità e affidabilità sul piano sociale (soprattutto in situazioni emergenziali come quella attuale), la conoscenza scientifica in generale venga acquisita pubblicamente come un sapere non dogmatico, ma frutto di una ricerca in divenire e quindi – per quanto sottoposta a un rigoroso controllo metodologico – in linea di principio sempre provvisoria nei suoi risultati, prospettica, suscettibile di integrazioni e correzioni, cfr. in via preliminare S. Caianiello, Educare all’incertezza: filosofia della scienza e comunicazione , in “Scienza&Società”, 1-2, 2007, pp. 93-110, ora in questo Osservatorio. La stessa questione, sul versante umanistico, è affrontata in E. Lonardi, La sfida del Covid-19 alle scienze umane, in rete. Sul rapporto squilibrato, al tempo della pandemia, fra provvisorietà del sapere scientifico e bisogno espresso dall’opinione pubblica di ricevere certezze dagli esperti cfr. D. Di Cesare, Virus sovrano? L’asfissia capitalistica, Torino, Bollati Boringhieri, 2020, pp. 41 sgg. Per un’analisi (gravata forse da un eccessivo entusiasmo positivista) dell’importanza di un’alfabetizzazione scientifica diffusa per il buon funzionamento della democrazia cfr. M. Dorato, Disinformazione scientifica e democrazia. La competenza dell’esperto e l’autonomia del cittadino , Milano, Raffaello Cortina, 2019.
[50] Sulle intemperanze della critica valgono ancora oggi le raccomandazioni giudiziose di uno dei più severi critici della cultura occidentale: Friedrich Nietzsche (cfr. Sull’utilità e il danno della storia per la vita – 1874 –, tr. it. di S. Giametta, Milano, Adelphi, 19814, p. 24).
[51] Su questo punto c) e sul precedente vorrei cadesse un accento molto forte in tempi di didattica a distanza forzosa, che può essere giustificata solo dalla contingenza pandemica, ma non può e non deve assolutamente aspirare a sostituire il rapporto vivo fra studente e docente.
[52] E. Illouz, Storie virali. L’insostenibile leggerezza del capitalismo per la nostra salute , cit., p. 8.
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