La tela

Salvatore Garau  -  brevi appunti attorno a un dipinto nato in carcere

 

“La libertà è una gioia preziosa”, dirà uno dei tre detenuti/pittori che, all’interno del carcere di Alta Sicurezza di Massama, Oristano, hanno dipinto assieme a me una grande tela di cm 200X500. In questa semplice affermazione c’è tutto il senso che ruota attorno al desiderio che ho avuto di condividere la mia libertà di artista con chi la libertà non ce l’ha.
Banale a dirsi, eppure ogni giorno siamo messi di fronte a banalità che tali appaiono, finché non succede un imprevisto che ti fa notare lo scarso valore che dai a ciò che sei convinto ti appartenga per diritto. Un incidente, anche un piccolo male o la mancanza di libertà improvvisa, ed ecco che sei costretto a pensare al tesoro che avevi e non hai mai ringraziato di avere. Eppure non era scontato averlo.

Ho dovuto affrontare una tanto reale quanto inaspettata crisi, che nel profondo del mio intimo è nata dal dipingere con ragazzi che pittori non sono. Ma la sfida di creare comunque un’opera importante, che non fosse solo un mero svago, andava accettata fino in fondo. Mentre la Tela man mano veniva dipinta, la timidezza, quasi angoscia, mostrata inizialmente, si scioglieva, e i tre ragazzi mostravano meraviglia per ciò che loro stessi stavano creando sulla tela.

Non potevano sapere che il poco di ciascuno unito in un insieme avrebbe mostrato un racconto che a loro insaputa si sarebbe dipanato svelando l’intimo della vita di ciascuno di loro. “Vorrei dipingere una barca o un veliero; mio padre faceva il pescatore…”. Altra semplice frase, detta dentro un carcere, talmente ricca di significati che non ha bisogno di spiegazioni. Insomma, i ragazzi hanno fatto un’autoanalisi senza bisogno di chiedere suggerimenti o aiuti, una libertà davvero difficile da conquistare ha donato loro uno strumento per leggersi dentro.
“Davanti a questa tela siete più liberi delle persone libere che stanno fuori” ho detto loro. Ovvio che una simile affermazione, inizialmente, poteva spaventare, ma è stata necessaria per creare in loro la sfida. Sappiamo bene quanto la mancanza di una traccia, un sicuro cammino da seguire, possa creare sbandamento. Dove vado? A destra? Al nord, al sud? Decidere assumendosi piena responsabilità in generale ci crea un senso di ansia, anche fuori da un carcere. Dimmi cosa vuoi che faccia e lo farò, è decisamente una risposta più comoda. Ecco perché l’arte è certamente il terreno della creatività per eccellenza, ma è anche il luogo dell’angoscia e della sfida di cui accennavo.

Il momento storico che stiamo vivendo mi ha riportato al mese trascorso nel carcere. Di sicuro alcune situazioni sono imparentate o molto simili. Per esempio il pensiero che si fa più lento, si sedimenta in modo profondo, introspettivo, ci costringe ad analizzare zone del nostro io tenute a bada dalla velocità e per questo neanche notate, come quando non sai gustarti il paesaggio dal finestrino di un’auto lanciata a 200 all’ora. Quello stesso paesaggio in bicicletta è un altro pianeta ricco di filosofia, storia e biologia.
La lentezza, nonché il bisogno di libertà a cui ci ha costretti il virus potrebbe farci sentire inadeguati e spegnerci lentamente. Eppure la lentezza non dovrebbe più essere un veleno ma una medicina. I tre detenuti/pittori dopo il mese di pittura erano rinati, vincendo un’apatia a cui erano costretti dalla vita carceraria. Ogni sera rientrando nella loro cella avevano un nuovo pensiero da nutrire, un pensiero lento ma ricco di aspettative per la seduta di pittura del giorno dopo.
Spetta a noi e soltanto a noi rendere una clausura forzata produttiva. È un momento di vera sfida con noi stessi. Innegabile sia una grande lotta.
Le sorprendenti scoperte fatte dai ragazzi durante la realizzazione del progetto, hanno mostrato il potere dell’arte e della parola dentro luoghi tristi come la prigione. Quanto più potente potrebbe dimostrarsi l’arte o semplicemente un pensiero o una parola all’interno delle nostre case?