Napoli 1764

I medici che non curano che i sintomi non sono de’ gran fisici
A. Genovesi,Lettere accademiche sulla questione se sieno più felici
gli scienziati o gl’ignoranti (1764)

Quando nel 1763 il rischio di una penuria dei raccolti si profilò minaccioso all’orizzonte del Regno di Napoli, pochi anni erano trascorsi dalla meno grave, ma non per questo meno allarmante, crisi annonaria del 1758-59, risolta da Carlo di Borbone con l’approvvigionamento straordinario di granaglie dalla Sicilia. Nel ’63, però, all’andamento negativo della produzione agricola regnicola (Sicilia esclusa) si aggiunse quello di gran parte dell’Italia e dell’intero bacino del Mediterraneo. Per fronteggiare l’emergenza sarebbe stato necessario un intervento immediato atto a garantire un afflusso adeguato di derrate alimentari, viste le cattive previsioni sul raccolto estivo. Ma come spesso accade si preferì temporeggiare, il che in un mercato dei grani come quello napoletano retto da un sistema di prezzi amministrati, significava favorire l’aggiotaggio da parte dei grossi intermediari commerciali, con l’inevitabile diminuzione della quantità di merce circolante. Cosicché quando nell’autunno la crisi si manifestò in tutta la sua evidenza crebbero le tensioni sociali e le proteste contro gli accaparratori accusati di far lievitare i prezzi… e non il pane. Il governo corse ai ripari; il principale problema politico da affrontare era sfamare la capitale dove la situazione aveva assunto connotati socialmente preoccupanti e in qualche caso paradossali.

Vi basti sapere – scriveva da Napoli Romualdo De Sterlich a Giovanni Lami – che un Segretario di Stato più mattine è rimasto senza pane; che una pagnotta di pan mediocre era un regalo da farsi a qualsiasi personaggio. Ne volete di più, fino il pane della mensa reale aveva mutato di qualità[1].

La recente storiografia ha confermato il senso di sconcerto dei testimoni di quei tragici avvenimenti. L’acuta sintesi storica di Franco Venturi ha indicato nei provvedimenti adottati un caso eclatante di inefficienza “organizzata” con interventi governativi, tardivi e contradditori, nel tentativo conciliare l’intervento pubblico con gli interessi dei pochi grossi commercianti di grani[2]. Dopo l’iniziale minimizzazione del problema, il Consiglio di Reggenza, i grossisti di granaglie (Assientisti), le Commissioni ministeriali e gli Eletti della città per mesi si mossero a tentoni tra accuse reciproche ed un comune scarso senso civico. In un primo tempo prevalse la linea dura con provvedimenti da economia di guerra ispirati alla parola d’ordine: «prendere il grano». Lapidario, Tanucci comunicava al re la decisione di inviare Giovanni Pallante in giro per le province a cercar grani, a punire li rei, a stabilir i prezzi ed a far con una giurisdizione senza limite e dispensando anche tutte le altre giurisdizioni[3].

Il tentativo di ammasso forzoso non dette i frutti sperati per la diffusa resistenza ai metodi brutali del Pallante e le proteste di quanti erano colpiti nei propri interessi. L’inevitabile conseguenza fu quella di rendere ancora più ridotta la quantità di grano disponibile non solo nella capitale bensì nell’intero Regno. Un cambiamento di rotta era inevitabile e Tanucci autorizzò l’acquisto di granaglie sul mercato extraregnicolo e internazionale. Sia pure tra speculazioni e frodi alimentari, la decisione sortì almeno il risultato di tamponare l’emergenza e il 5 di giugno del ’64 il Segretario di Stato poteva finalmente comunicare al re che «la carestia per grazia di Dio e di V[ostra] M[aestà] è finita».

Se la carestia era alle spalle non così le sue conseguenze sanitarie; una strana moria d’uomini si era, infatti, rapidamente diffusa per il Regno. In una lettera a Ferdinando Galiani Tanucci sintetizzava, in modo sbrigativo ma franco, il suo punto di vista; ovvero del governo. In una dura requisitoria l’intera responsabilità del mancato controllo di quella che ormai era a tutti gli effetti una vera e propria epidemia era addebitata ai medici che a Napoli, come – teneva a precisare – «in tutto il mondo», si erano dimostrati alla prova dei fatti ignoranti, sfrontati, temerari, impostori, incapaci di salvare persino l’apparenza; infatti «non hanno aperto né tagliato un cadavere. Io su questo – sottolineava – ho predicato invano». Anche sulle cause dell’epidemia Tanucci aveva le idee era altrettanto chiare: premesso che l’epidemia divampò «per diverse cagione; e furono varie», di scarsa utilità erano risultate le congetture di quei medici che «tanto sfacciatamente decidono e mettono in un fascio tutte quelle diversità». A suo dire, le cause scatenanti erano state sostanzialmente due: il pane adulterato, messo in circolazione dai «fornari degli eletti di Napoli», e la moltitudine di mendicanti «sporchi, squallidi e putridi» confluiti in città[4].

Fatta la tara della personale idiosincrasia verso i medici, Tanucci, aveva tutto l’interesse a fare sua la communis opininio dei napoletani; del resto, l’idea di una stretta correlazione tra carestie ed epidemie era da secoli patrimonio comune delle popolazioni europee. Anche altri cronisti del tempo furono concordi nel considerare l’epidemia una diretta conseguenza del deficit alimentare. Le opinioni, però, divergevano sulle cause naturali delle «febbri» che in pochi mesi avrebbero causato migliaia di decessi. La cattiva qualità dei grani, le condizioni igieniche della città furono chiamate in causa, ma, soprattutto, molti osservatori sottolinearono la coincidenza tra l’insorgere del fenomeno epidemico e lo straordinario afflusso di mendicanti in città. In effetti, man mano che la carestia si diffondeva nelle campagne masse di disperati presero l’unica decisione possibile: seguire la via del grano. Una via che, inevitabilmente, portava a Napoli, dove almeno potevano sperare di non morire di fame senza, però, immaginare che tra le masse vaganti in città più virulento si sarebbe propagato il contagio. Comunque sia, vittime o responsabili che fossero nessuno ebbe dubbi sul fatto che i pezzenti, erano i più colpiti.

A differenza della natura democratica della peste, il morbo si mostrava selettivo nei confronti del corpo sociale. Ed è questa una delle ragioni del perché ancora una volta l’intervento delle autorità non fu tempestivo. Come Gabriella Botti ha giustamente osservato, le prime proposte della «Deputazione della Salute» sui provvedimenti da adottare arrivarono soltanto nel mese di giugno quando la mortalità raggiunse il suo picco. Un ritardo grave e forse inevitabile visto che «la vera “produttività”, in campo epidemiologico, a metà Settecento» non era ancora «quella della scienza medica ma quella degli Uffici di Sanità» emanazione diretta del potere politico[5].

Fin dai primi anni della monarchia borbonica erano state avanzate proposte di prevenzione tese a superare, in caso di epidemie, le tradizionali misure di puro e semplice isolamento (la quarantena di medioevale memoria). Cominciò a farsi strada l’idea della necessità di un più razionale intervento statale nella gestione della sanità pubblica. Misure rese possibili anche grazie al concordato del 1741 tra Carlo di Borbone e Benedetto XIV che istituiva il tribunale misto di religiosi e laici con competenze amministrative sui luoghi di accoglienza dei malati. Alla metà del secolo, nell’ambito di un generale riordino e omogeneizzazione dei fino ad allora frammentari interventi legislativi, si avviò la compilazione delle «Istruzioni generali in materia di sanità», largamente ispirati ai principi riformatori espressi intorno alla metà degli anni Quaranta da Carlo Antonio Broggia[6]. Sulla spinta delle «febbri maligne» che avevano afflitto Messina nel 1743, Broggia si era fatto portavoce delle istanze di quanti chiedevano il diretto «governo politico della sanità». Un problema estremamente serio perché, scriveva il Broggia, quando «si tratta della pelle»[7] l’autorità politica non può tirarsi indietro. Anche se molte la critica del Broggia alla tesi dell’impossibilità per lo stato di prevenire e contenere il diffondersi delle epidemie riprendeva molte delle idee sul governo della peste espresse dal Muratori[8], le proposte dell’illluminista napoletano sui temi del controllo sanitario di uomini e cose si intrecciavano con considerazioni politiche di stretta attualità. Broggia contesta in modo aspro il trattato di «Pace, Navigazione e Commercio» stipulato con la Turchia nel 1740. In particolare, denunciava il rischio economico causato dal commercio con le regioni controllate dal Divano con l’importazione di «roba forastiera e superflua, o per poco necessaria»[9] e per giunta pericolosa per la salute. Broggia sollecitava nuovi meccanismi di selezione di coloro che avevano il compito e la responsabilità di vigilare sulla salute pubblica. Lo stato doveva scegliere bene gli operatori sanitari che, oltre allo zelo e alla carità di patria, dovevano possedere specifiche competenze. In particolare i medici consulenti delle autorità dovevano essere di chiara fama «non già per esser cattedratici» bensì per le doti professionali dimostrate con i fatti e non con le belle parole. In qualche caso i suggerimenti del Broggia erano decisamente velleitari come la quarantena di ogni nave sospetta in un lazzaretto costruito su di un’isoletta remota da qualche parte del mediterraneo a disposizione di tutte le nazioni cristiane. Più concreta e lungimirante era invece la proposta di migliorare la conoscenza delle malattie esotiche attraverso la concessione di premi ai medici disposti a recarsi a studiarle nei loro luoghi d’origine. Infine Broggia proponeva di uniformare le procedure da adottare in caso di rischio sanitario con la pubblicazione di un vero e proprio libretto d’istruzioni per aiutare il personale medico a riconoscere tempestivamente le malattie e decidere le conseguenti misure di polizia medica da adottare[10].

Dopo Carlantonio Broggia il dibattito sull’utilità sociale della medicina e il dovere dello stato di tutelare la salute pubblica resterà al centro del dibattito dei riformatori meridionali per i quali il benessere fisico della popolazione era non meno importante, nell’arte del buon governo, degli interventi economici, assistenziali e educativi. Parallelamente si formava una nuova classe medica, pronta ad offrire il soccorso del sapere medico al potere politico. Se ne fece portavoce Michele Sarcone nella Istoria ragionata… dell’epidemia pubblicata nel ’64[11] che innestava la medicina nel tronco delle «scienze utili» auspicate da Antonio Genovesi e proiettava in una dimensione implicitamente politica l’analisi della matrice socio-economica dell’epidemia. Infatti, se da un lato la dedica al Tanucci «protettore delle lettere» può essere considerata il formale omaggio del giovane medico all’ancora potente statista, dall’altro le lodi profuse all’«uomo della provvidenza» – così Sarcone definisce il Tanucci – per le misure adottate nel fronteggiare la carestia, si inserivano nel vivo dei contrasti che avevano accompagnato la gestione della crisi. Sarcone intende demolire quanto si è generalmente creduto, che tutti i guai da noi sostenuti non dovessero la loro nascita, che alla fame sofferta, al pravo vitto, ed al frumento vizioso e imputridito[12].

Sarcone, però, va oltre, secondo lui, infatti, Napoli non avrebbe nemmeno patito una vera e propria carestia, infatti qui non può dirsi, che mancasse interamente il pane in nessun giorno: n’era scarso, difficile, laborioso l’acquisto, ma non impossibile, né disperato[13].

Secondo il medico, del resto, la carenza di pane era stata ampiamente compensata da altri generi alimentari. Infatti, nonostante la penuria maggiore si ebbe tra gennaio e marzo, l’epidemia «non si svegliò che in aprile»[14]. Sarcone era tutt’al più disposto a concedere agli avversari del Tanucci che la carestia potesse annoverarsi, con altre concause, tra i fattori «predisponesti» alle malattie anche se, in ultima analisi, altrove risiedeva la causa prossima dell’epidemia. Infatti le miserie orribili furono quelle, che si sperimentarono né luoghi rimoti dalla capitale, in alcuni dei quali la carestia fe’ sentire i suoi più terribili effetti a segno che la gente povera e meschina, abbandonata agli stimoli d’una rabbiosa fame, fu costretta a nudrirsi di vilissimo cibo, a vivere di pure sostanze erbacee cotte e condite col sale e coll’olio, ed i più miserabili fino furono ridotti a cibarsi d’erba non cotta[15].

Soltanto tra costoro erano maturate tutte le condizioni materiali e morali per l’insorgere delle «tre potenti cagioni di putrescenza, la fame, il vitto pravo, l’impulitezza»[16], all’origine delle febbri propagatesi in tutti luoghi attraversati dalla disperata moltitudine cenciosa e sporca di veri e propri «cadaveri viventi» vaganti alla ricerca di cibo. Non a caso l’epidemia non aveva colpito le città che si rifiutavano di ospitarli. Quando ad aprile giunsero a Napoli per molti di loro la sorte era già segnata e «per lo più finirono di vivere come lume che si spegne per mancanza di alimento»[17].

Quanto alle misure adottate per arginare il diffondersi del contagio Sarcone enfatizzava il sostanziale accordo tra autorità politiche e medici chiamati a fornire la loro consulenza alla «Deputazione della pubblica salute». I suggerimenti, puntigliosamente elencati nell’Istoria, di Aniello Firelli, Cesare Cinque, Francesco Serao, Domenico Pedillo, Giuseppe Vairo che proponevano la delocalizzazione degli ospedali militari e creazione di nuovi ricoveri per i malati fuori città, la sepoltura immediata dei morti al campo santo e conseguente divieto di inumazione nelle cosiddette «terre sante» delle chiese, l’individuazione degli strumenti idonei per pulire e separare i mendicanti dai cittadini sani, erano state, sottolineava Sarcone, in gran parte recepite dal dispaccio reale di cui riporta integralmente il testo.

Il nostro medico si guarda bene dall’approfondire se, e in che misura, i provvedimenti fossero stati effettivamente posti in essere. Secondo Sarcone, la disponibilità del governo a seguire, almeno sulla carta, gli illuminati consigli dei medici apriva spazi di collaborazione tra scienza e potere politico che facevano passare in secondo ordine le eventuali omissioni[18].

Sarebbe però riduttivo considerare l’Istoria una mera apologia del buon governo tanucciano, in realtà, l’intento principale dell’opera era piuttosto l’esaltazione del ruolo della classe medica durante la crisi sanitaria. La stessa pubblicazione immediata del suo libro, che oggi definiremmo un instant book doveva «riguardarsi piuttosto come l’opera d’una società medica, che come semplice lavoro d’un privato»[19]. La disponibilità di numerosi medici a fornire il loro fattivo contributo alla stesura dell’Istoria era stata la premessa per superare i vistosi limiti scientifici della pur abbondante letteratura dedicata all’epidemia napoletana. La descrizione «del sito e dei venti» della città di Napoli Sarcone avrebbe dovuto estendere la collaborazione studiosi di diversi ambiti disciplinari, come la meteorologia, considerati indispensabili per una più rigorosa indagine epidemiologica. Purtroppo la morte di Nicola Carcani e le registrazioni metereologiche del marchese Berardo Galiani, limitate agli ultimi dieci anni, rendevano impossibile la realizzazione di un lavoro necessariamente collettivo perché, sottolineava il Sarcone, «l’osservar tutto non è opera d’un solo; e l’osservare non è opera da tutti»[20].

Nonostante l’obbligata rinuncia al più ambizioso progetto di fornire una completa topografia medica della città di Napoli, grazie alla collaborazione dei colleghi Rubertis, Cinque, Serao, Cotugno e molti altri, nell’Istoria confluiva il patrimonio di esperienze professionali e scientifiche accumulate da una comunità di medici che erano stati in prima linea nel combattere «le varie malattie che si unirono per comporre la grande sofferta epidemia»[21]. A questa conclusione Sarcone era giunto forte della personale esperienza di medico militare e la sua tesi era condivisa dai colleghi che avevano affrontato le «febbri» napoletane senza ricorrere a modelli eziopatologici precostituiti. Anche Domenico Cotugno, in una lettera a Giovanni Bianchi, lodava l’approccio dell’epidemia di quei medici che non hanno avuto sistema stabile, ed il raccontarle tutte le stravaganti maniere in curarle sarebbe un romanzo […] ma – teneva a sottolineare – i più savi si sono allontanati dall’affastellare: ed a ciascuna febre ànno adoperato cura convenevole. Chi ha distinta febre da febre è stato medico più felice[22].

Il trauma provocato dall’epidemia scuote la cultura medica più avvertita, obbligandola a cercare nuove soluzioni a vecchi problemi legati ai limiti e ai ritardi nella gestione della salute pubblica. La questione principale era l’enorme squilibrio, anche dal punto vista sanitario, del rapporto città-campagna, con presidi sanitari concentrati nella sola capitale. Dopo l’epidemia i medici riformatori si fecero carico della formazione una nuova leva di professionisti per lo più destinati a sopperire alle carenze sanitarie delle province meridionali, un impegno sul territorio che contribuì ad accrescere il prestigio sociale alla medicina. Ad esempio, nel 1774 l’ennesima disputa tra le facoltà di giurisprudenza e medicina sui rispettivi privilegi e prerogative si concluse con il riconoscimento governativo dei diritti rivendicati dai medici[23]. Il maggiore coinvolgimento dei medici nella vita pubblica incise sulla stessa composizione dei ceti intellettuali urbani con crescente rilievo assunto dalle professioni mediche. Infatti, mentre la Napoli spagnola era stata la città dei legum doctores, con i laureati in medicina che non superano il 7%[24] del totale; nel periodo compreso tra il 1734 e il 1773 si contano più di mille laureati in medicina[25]. Anche il collegio medico di Salerno nel 1798 concede 152 lauree a fronte delle 77 del 1717[26]. Una tendenza che troverà definitiva conferma nel XIX secolo quando il rapporto tra giuristi e professioni mediche lentamente passa dal 7 a 1 del 1807, momento di massima crisi seguito alla chiusura del Collegio degli Incurabili, al 3 a 1 del 1871[27].

[online 27/04/20]

[1] R. de Sterlich, Lettere a G. Lami (1750-1768), a cura di U. Russo e L. Cepparrone, Napoli, Jovene, 1994, p. 578. Sul significato sociale delle vicende legate ai festeggiamenti del carnevale del 1764 vedi L. Barletta, Il carnevale del 1764 a Napoli. Protesta e integrazione in uno spazio urbano , Società Editrice Napoletano, 1981; D. Scafoglio, Il gioco della cuccagna. Spreco e tumulti festivi nella carestia del 1764 a Napoli , Cava dei Tirreni, Avagliano, 2001.

[2] F. Venturi, 1764: Napoli nell’anno della fame, in «Rivista Storica italiana», LXXXV (1973) pp. 394-472 poi rifuso in ID., Settecento riformatore, Torino, Einaudi, 1987, vol. V, t. I, pp. 221-305.

[3] Lettera del 20 dicembre 1764, in B. Tanucci, Epistolario 1764, vol. XIII, a cura di M. Barrio, Napoli, 1994. Sul ruolo del Tanucci durante la carestia vedi P. Villani, Una battaglia politica di B. Tanucci. La carestia del 1764 e la questione annonaria a Napoli , in Studi in memoria di Nino Cortese, Roma, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, 1976, pp. 611-666.

[4] B. Tanucci, Lettere a Ferdinando Galiani, a cura di F. Nicolini, Bari, Laterza, 1914, vol. I, pp.163-164. Vedi S. Franco, La politica socio-sanitaria di Bernardo Tanucci nel periodo della reggenza, 1759-1767, cit.

[5] G. Botti, “Febbri putride e maligne” nell’”anno della fame”: l’epidemia napoletana del 1764, in Sanità e società , cit., p. 88.

[6] C. A. Broggia, Trattato de’ tributi, delle monete, e del governo politico della sanità. Opera di Stato, e di Commercio, di Polizia, e di Finanza , Napoli, Palombo, 1743.

[7] Ivi, pag. 468.

[8] L. A Muratori, Del governo della peste, Milano Philobyblon, 1992. L’opera pubblicata a Modena nel 1710 ebbe numerose ristampe compresa quella napoletana del 1743.

[9] Ivi, pag. 443.

[10] Ibid., pp. 452 e 496-497.

[11] M. Sarcone, Istoria ragionata de’ mali osservati in Napoli nell’intero corso dell’anno 1764 , (1764) cito dall’edizione Napoli, Mosca, 1838. Cfr. E. De Angelis – V. Cazzaniga, Spunti di metodologia ippocratica nell’«Istoria ragionata di mali osservati in Napoli nell’intero anno 1764» di Michele Sarcone , «Bollettino Italiano di Paleontologia», (1969) 1, pp. 49-53. Su Sarcone vedi N. Giangregorio, Michele Sarcone, il medico, lo scienziato, il meridionalista del Settecento , Bari, Fratelli Laterza, 1986; B. Rauchi,Michele Sarcone, il ricercatore di calamità, in Scienziati in Puglia. Secolo V a.C-XXI, a cura di F. P. De Ceglia, Bari, Adda, 2007, pp. 128-130; T. L. De Sanctis, Biografia di Michele Sarcone, «Il Sarcone. Giornale di medicina e scienze affini», I (1844), pp. 3-7.

[12] Ivi, pag. 136.

[13] Ivi, pag. 149.

[14] Ivi., pag. 137.

[15] Ivi., pag. 149

[16] Ivi, pag. 157.

[17] Ivipag. 152.

[18] Ivi, pp. 169-175.

[19] Ivi, pag. 26.

[20] Ivi, pag. 35.

[21] Ivi, pag. 26.

[22] In G. Bilancioni, Sulle rive del Lete. Rievocazioni e ricorsi del pensiero scientifico italiano , Roma, Bardi, 1930, pp. 162-163.

[23] A.M. Rao, Intellettuali e professioni a Napoli…, cit., pag. 47. Sulla subordinazione dei medici ai dottori in legge all’interno del Collegio dei dottori si veda I. Del Bagno, Il collegio napoletano dei dottori, cit.

[24] I. Del Bagno, Legum doctores. La formazione del ceto giuridico a Napoli tra Cinque e Seicento , Napoli, Jovene, 1993, pp. 27-42.

[25] A.M. Rao, Intellettuali e professioni a Napoli…, cit., pp. 50-51.

[26] A. Musi, La professione medica nel Mezzogiorno moderno, in Avvocati, medici, ingegneri…, cit., pp. 88-89.

[27] G. Galasso, Professioni, arti e mestieri della popolazione di Napoli nel secolo XIX, in «Annuario dell’Istituto Storico Italiano per l’età moderna e contemporanea», 1961-1962, pag. 119.

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