UNEASINESSJOHN LOCKE E LE INQUIETUDINI DEL PRESENTE

Luisa Simonutti

Annunciando al lettore l’argomento del libro, Paura liquida, (2006), Zygmunt Bauman, scriveva “La paura più temibile è la paura diffusa, sparsa, indistinta, libera, disancorata, fluttuante, priva di un indirizzo o di una causa chiari; la paura che ci perseguita senza una ragione. “Paura” è il nome che diamo alla nostra incertezza: alla nostra ignoranza della minaccia, o di ciò che c’è da fare.” Un’epoca di inquietudini dove appunto, se possiamo trovare un senso di strano sollievo nella identificazione di una minaccia reale, subito dopo ci troviamo di fronte a un nuovo pericolo indistinto che ci crea apprensione, ci instilla angoscia.

La questione del nostro tempo non è quindi tanto il convivere con la paura che del resto attraversa ogni creatura vivente e che comunque implica un pericolo determinato, quanto il convivere con l’ansia che ci procura un evento, un pericolo indeterminato, sfuggente, impalpabile, diffuso in modo indefinito e indefinibile come un virus. Da qui la richiesta di risposte certe, di dispositivi che permettano di riportare il virus, e probabilmente anche le nostre vite, in un ambito controllabile, o perlomeno ben determinato.

Dunque, ciò che ci pare difficile accettare oggi è l’incertezza, l’inquietudine, quell’uneasiness che oltre trecento anni fa il filosofo John Locke descrisse come motore delle nostre passioni, della speranza e del timore. Un concetto che riprende oggi tutta la sua valenza filosofica, psicologica e politica e che si colloca al centro delle riflessioni intorno alle nostre vite in condizione di pandemia.

Uneasiness , disagio, inquietudine, ansia, un termine che il primo traduttore del Saggio sull’intelletto umano, il francese Pierre Coste, traduce con “inquiétude” subito precisando che il termine non rende pienamente il concetto espresso dal filosofo. La traduzione è ai suoi occhi a tal punto insoddisfacente che decide di segnalare in corsivo tutte le occorrenze del termine inquiétude rimandando il lettore curioso all’originale inglese.[1] Il termine francese porta con sé una valenza di passività nella ricerca di una “tranquillité dans l’âme” che solo parzialmente esprime la connotazione attiva del termine inglese. Infatti, sottolinea ancora il Coste, è significativo che Locke ponga il concetto di uneasiness all’origine di molte azioni di cui è composta la nostra vita e ne analizzi le implicazioni proprio nel capitolo dedicato ai concetti di potere e di libertà.

Una inquietudine del desiderio, un malessere della coscienza che accompagnano tutto il corso della vita mentale[2]. Scriveva infatti nell’ottobre del 1694 all’amico Jean Le Clerc che lo interrogava intorno al rapporto tra la volontà e la libertà dell’individuo nelle scelte di vita: “Riguardo alle determinazioni della volontà possiamo fare tre considerazioni: 1. Le inquietudini ordinarie [..]. 2. Le inquietudini violente alle quali la mente non può resistere, né fuggire. [..] 3. Un gran numero di azioni piccole e molto indifferenti che si mescolano a quelle più grandi [..]” senza un particolare motivo d’inquietudine. Infatti, nel caso delle piccole azioni quotidiane, rifletteva Locke, sarebbe indifferente se uno debba prima mettere la scarpa destra o la scarpa sinistra, o piegare o no il margine del foglio su cui sta scrivendo la lettera al suo amico, o se debba stare seduto o camminare o grattarsi la testa mentre sta meditando profondamente, finché, ad esempio, non intervenga il desiderio che nulla possa ostacolare l’invio della lettera o ritardarne la consegna. Ecco allora che questa inquietudine sarà sufficiente a inclinare la volontà a esprimere una determinata preferenza.[3]

Nel capitolo del Saggio sull’intelletto umano dedicato allo studio delle idee di piacere, di dolore e ad alcune passioni come la gioia, la tristezza, la speranza, la paura, la disperazione, la collera e l’invidia, Locke precisa che “sarà forse di qualche utilità osservare, di passata, che il principale, se non l’unico sprone all’industriosità umana è il disagio.”[4] Nel capitolo subito successivo, dedicato al concetto di potere e alla libertà, uno dei capitoli più rilevanti dell’opera, il filosofo ancora più esplicitamente sottolinea la valenza attiva dell’inquietudine.

Che Locke avesse assegnato una particolare rilevanza a questo capitolo è provato dalla cura con cui sottoporrà le sue riflessioni, nei primi anni novanta del Seicento, al giudizio di William Molyneaux.[5] Nello scambio di lettere con il filosofo irlandese e nell’appena ricordato capitolo del Saggio, Locke espone il nocciolo del suo ragionamento. La vera libertà dell’uomo consiste nella possibilità di sospendere, per volere della propria ragione, l’esecuzione di una qualsiasi azione. Tale sospensione (suspension) rende attuabile l’espressione del libero arbitrio. Infatti, solo per mezzo della soluzione di continuità tra volontà e azione, la ragione umana trova lo spazio per esercitare la propria libertà, per esaminare e giudicare quale fra tutti i nostri desideri, se esaudito, ci porterà alla felicità; per esprimere la libertà di conseguire la pace e l’armonia dell’uomo con se stesso e con i suoi simili. Per Locke, “l’idea della libertà” si configura nel potere che ha un individuo, seguendo il dettato del proprio pensiero, di fare o tralasciare qualunque azione particolare, di accettare o respingere, di governare le passioni e le nostre propensioni.

Dunque, il filosofo inglese esprime un’idea di potere tutta affidata all’uomo, all’individuo: una idea di potere in cui resta estraneo ogni appello al cielo e alla potenza divina. Immediatamente si interroga in che cosa consista quel potere che dirige le facoltà operative di un uomo al movimento o al riposo, ossia che cosa determina la volontà? “E a questo io rispondo: il motivo per continuare nello stesso stato o nella stessa azione è solamente la soddisfazione presente; il motivo per cambiare è sempre un disagio; giacché nulla ci indirizza verso a un cambiamento di stato o verso una nuova azione se non qualche disagio. Questo è il grande motivo che opera sullo spirito per metterlo in azione, e per brevità lo chiameremo la determinazione della volontà”. (§29)

Per Locke dunque l’inquietudine, il disagio non sono solo il tormento causato da una mancanza, da un’assenza[6], ma contengono una carica di ansia propulsiva, di cambiamento: un sileno[7] che sotto un involucro che esprime un’assenza sprigiona il potere della scelta, dell’azione. Così, ancora una volta, Locke ripete che “ciò che determina immediatamente la volontà, di volta in volta, ad ogni azione volontaria è il disagio del desiderio, fissato su qualche bene assente: sia negativo, come la cessazione del dolore per chi lo sta provando, sia positivo, come il godimento di un piacere”. (§33)

La modernità ha conservato questo sileno o si è sentita appagata dal solo senso della mancanza? O forse ha preferito espellere dal proprio orizzonte il dubbio della ragione e l’emozione inquieta del cercare, preferendo la pacificazione di una verità perentoria e dogmatica?

Nella sua eclettica traduzione latina del Saggio lockiano pubblicata a Napoli tra il 1788 e il 1791, Giovanni Leonardo Marugi dimostrava di aver saputo cogliere la titubanza di Pierre Coste nel tradurre unseasiness e, se in un primo momento scelse la parola latino molestiae (disagio, affanno) poi decisamente preferì tradurre il termine inglese con il latino anxietas (angoscia, timore). Già nell’ Abregé de l’Esssai de Monsieur Locke, sur l’entendement humain, pubblicato a Ginevra nel 1738, il termine uneasiness sembra aver perso il suo potere propulsivo. Pur scusandosi con il suo lettore per l’inadeguatezza linguistica della sua traduzione, Jean-Pierre Bosset preferì non utilizzare il termine inquiétude proposto da Coste ma scelse la parola mésaise, che privilegiava una semantica della privazione. (p. 72)

Dunque, una strada da subito tracciata verso esperienze traduttive che interpreteranno il termine uneasiness accentuandone il senso di passività e l’emotività negativa[8]. Ancora più fortemente, nel nostro presente, il termine di inquietudineuneasiness, è connotato da una mancanza di certezze, da un’ansia che è soprattutto malessere, quasi una malattia, e inesausta e inappagata ricerca di asserzioni. Desideri di infallibilità nella capacità salvifica di un vaccino, di sicurezze nel proprio futuro; desideri di certezze riposte nella scienza o nella storia o in qualsivoglia altra cosa, quasi come in una nuova teleologia, dimenticando che la condizione umana non è frutto di un disegno determinato ma l’esito della costruzione della propria esperienza umana: ad essa compete di esistere stabilmente nell’inquietudine delle proprie scelte.

 

[Online 22/04/2020]

 

[1] John Locke, Essai philosophique concernant l’entendement humain, Traduit par Pierre Coste, Troisième édition, Amsterdam 1735, p. 176.
[2] Vocabulaire européen des philosophies. Dictionnaire des intraduisibles , a cura di Barbara Cassin, Paris 2004, p. 80. Noi utilizzeremo, pur nella sua incompletezza, il termine di inquietudine.
[3] The Correspondence of John Locke: In Eight Volumes , a cura di E. S. de Beer, Oxford 1976-1989, vol. V, pp. 150-160. (mia traduzione)
[4] John Locke, Saggio sull’intelletto umano, tr. it. a cura di Marian e Nicola Abbagnano, Torino 1971, Libro II, cap. XX, §6. I corsivi sono dell’autore.
[5] The Correspondence of John Locke, vol. IV.
[6] Emilienne Naert, “Uneasiness” et inquietude, in “Les Études philosophiques”, 1971, pp. 67-76.
[7] È una figura della mitologia e una statuetta dell’antica Grecia; in questo caso si allude al concetto utilizzato da pensatori antichi e rinascimentali per indicare chi benché appaia brutto all’esterno, nasconde all’interno bellezza e saggezza.
[8] Come esempi mi limito a ricordare, la già citata traduzione italiana a cura di Marian e Nicola Abbagnano che utilizza principalmente il termine “disagio”, così come la traduzione italiana del 1951 a cura di Camillo Pellizzi. Nella recente traduzione francese del Saggio lockiano, (Paris 2001), Jean-Michel Vienne traduce uneasiness con la parola francese malaise accentuandone la valenza di pena e di apprensione.

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