Compassione
L’epidemia da Coronavirus ha evidenziato la presenza di un elemento – quello della relazione di reciprocità – talmente capillare da poter essere esaminato in molti aspetti, daldistanziamento alla solidarietà, a quella compassione per i morti che ha determinato forme di lutto del tutto nuove e cariche di implicazioni. Su questo vorrei richiamare alcuni momenti del dibattito filosofico in età moderna e contemporanea.
Nel pieno della sua produzione intellettuale, nel 1809, il trentaquattrenne Friedrich Schelling perde la moglie Caroline. Questo evento ha sul filosofo una risonanza traumatica, al punto che interromperà i suoi studi per approfondire il tema della morte. In una sorta di dialogo filosofico romanzato, Clara, Schelling riprende l’argomento centrale delle sua ricerche, quello della natura, centrandolo però sulla ‘corporeità’, che in questa vita confligge con la spiritualità, mentre dopo la morte si ripresenta trasfigurata nella dimensione spirituale. Ma è soprattutto nelle lettere che scrive poco dopo la morte di Caroline che Schelling si mostra persuaso che la loro relazione non si è conclusa, ma è proseguita in una diversa prospettiva.
Troviamo a questo punto due aspetti che possono intrecciarsi: il ruolo dell’altro nell’acquisire una consapevolezza della morte quanto più “prossima” alla propria, e l’utilizzo di tale consapevolezza sul piano esistenziale. Si tratta di tematiche che il romanticismo ha sollevato per la prima volta, e che si ripropongono nella prima metà del secolo XX in filosofi profondamente diversi, da Martin Heidegger a Jean-Paul Sartre, da Gabriel Marcel a Paul-Louis Landsberg.
Landsberg considera come, nei tanti modi con cui ci si può rappresentare la propria morte (le malattie, gli incidenti, la guerra), “non si arriva a trascendere la fisiologia e la psicologia del morire nel senso della metafisica della morte stessa”[1], fino a quando non ci si trova a contatto con la morte dell’altro , e, più in particolare, del prossimo verso cui proviamo una profonda empatia. Ebbene, questa morte “deve dirci qualcosa di decisivo e oltrepassare i confini del fatto biologico”[2]. Quando la persona che amiamo è ancora viva, se sta soffrendo, “il nostro corpo è in un’empatia carnale con il compagno torturato”. Quando l’agonia si conclude, per un istante tutto si acquieta; ed è allora, “nel momento in cui l’essere vivente ci abbandona, che proviamo l’esperienza dell’assenza misteriosa della persona spirituale”[3], “pur non dandoci alcuna certezza sulla sua sopravvivenza”[4].
Landsberg tratteggia due situazioni che ritroveremo specularmente nella realtà dei nostri giorni: la prima è legata alle sue esperienze a cavallo delle guerre mondiali (morirà nel 1944 nel campo di concentramento di Oranienburg), e riguarda il rapporto dei medici militari con le tante morti a cui assistevano. Ebbene, sostiene Landsberg, per questa categoria di operatori, “la morte non ha avuto che un impatto minimo” durante la guerra:
in questo senso, un medico militare ha detto che la morte appartiene allo stato civile. Un motivo è dovuto al fatto che l’esperienza personale della morte del prossimo non si vive contemporaneamente a quella morte, ma la segue nell’ordine del tempo. Se il nostro dovere ci chiama immediatamente a un nuovo compito, l’istante della presenza della morte deve perdersi[5].
L’altra situazione coinvolge i congiunti dei morti in guerra, i quali potevano apprendere il mero “fatto compiuto” nel momento in cui ricevevano le lettere con l’infausta notizia, ma solo se e quando venivano a conoscenza almeno di un dettaglio sugli ultimi istanti di vita dei loro cari riuscivano a contrastare il “carattere inumano e insopportabile di questa immediatezza”.
A contatto con il mistero nudo della morte, l’uomo cerca di ritrovare il clima più caldo del morire per concentrarsi nella compassione vitale di cui ha bisogno, perché è in questa compassione che si crede di avvicinarsi al defunto sostituendovi il morente che sembra contenerlo in germe. La rappresentazione del dolore vitale, e per quanto atroce sia questo dolore, ha per noi qualcosa di relativamente consolante. L’atto di morire nel quale la persona può concentrarsi resta un atto fondamentalmente accessibile alla nostra comprensione[6].
Ebbene, nel “noi” che abbiamo costituito con chi muore, dice Landsberg, “siamo indirizzati alla conoscenza vissuta del nostro dover morire . Per un attimo sfioriamo il regno della morte. Subito dopo rientriamo nel regno delle tenebre. Ma in questo istante il grande freddo non ci ha contagiato? Saremo ancora gli stessi dopo averlo provato?”[7]. A questo punto, “l’altro rappresenta in realtà tutti gli altri. È lo Jedermann, e questo ‘ognuno’ muore ogni volta nel prossimo che muore nella propria morte individuale” [8].
Landsberg risente dell’influenza di Max Scheler, il quale tuttavia considerava l’idea della morte come un elemento costitutivo della coscienza, esperita temporalmente nelle estensioni del processo vitale, e che tuttavia l’uomo contemporaneo tende a rimuovere[9]; laddove, sostiene Landsberg, “ciò che l’esperienza vissuta aggiunge è la coincidenza del punto limite biologico con la perdita subita della spiritualità”[10]. Nella sua immediatezza, “la morte dell’uomo è in origine simile a quella di una bestia”, ed “è solo in relazione a una progressiva personalizzazione dell’intera esistenza umana che acquista realmente un senso nuovo”[11]. Dunque, senza la possibilità del cambiamento della nostra esistenza in virtù di una “personale” esperienza dell’altro, la morte costituirebbe un discrimine tra il vivente e il defunto (“non è un dolore di chi è morto[12]). Potremmo allora con Sartre considerare la morte come lo “scacco esistenziale”, l’“assurdo” che cala “dall’esterno”[13] rispetto all’ambizione, alla “condanna alla libertà” di far confluire il “per sé”, la “coscienza”, con l’ “in sé”, con le cose con cui la coscienza viene a contatto. Naturalmente Sartre, a differenza di Landsberg, nega ogni tipo di relazione nella morte, così come nega la legittimità delle posizioni dei contemporanei Heidegger e Malraux sul fondamento ‘costitutivo’ della morte: la quale “non può appartenere alla struttura ontologica del per-sé [il soggetto coscienziale sartriano]; in quanto, infatti, è annullamento sempre possibile dei miei possibili, è al di fuori delle mie possibilità e non posso quindi attenderla, cioè gettarmi verso di lei come verso una delle mie possibilità”[14]. È in errore Heidegger – scrive Sartre –, il quale “sembra abbia costruito tutta la sua teoria del ‘Sein-zum-Tode’ sull’identificazione rigorosa della morte con la finitezza”, in quanto “la morte è un fatto contingente che dipende dalla fattità; la finitezza è una struttura ontologica del per-sé che determina la libertà e non esiste che mediante il libero progetto del fine che mi annuncia il mio essere”[15].
La filosofia, che è relazione, offre proposte su cui riconoscersi e confrontarsi, dunque anche nel tempo della pandemia. Ci sono molti aspetti tra quelli appena trattati su cui riflettere oggi.
Lo scrittore Michel Houellebecq in un intervento su Radio France Inter ha sintetizzato in maniera efficace la situazione:
La tendenza ormai da oltre mezzo secolo, ben descritta da Philippe Ariès[16], è di dissimulare la morte, per quanto possibile; ed ecco, mai la morte è stata tanto discreta come in queste settimane. La gente muore in solitudine nelle stanze di ospedale o delle case di riposo, viene seppellita immediatamente (o incenerita? La cremazione è più nello spirito del tempo), senza invitare nessuno, in segreto. Morte senza che se ne abbia la minima testimonianza, le vittime si riducono a una unità nella statistica delle morti quotidiane, e l’angoscia che si diffonde nella popolazione mano a mano che il totale aumenta ha qualcosa di stranamente astratto[17].
Dal momento in cui gli operatori sanitari con gli scafandri ‘senza volto’ portano via il malato, dal momento in cui questi varca le porte dell’ospedale, si rischia di entrare in un vicolo cieco. Non è più possibile sentirsi, se non raramente. Un bollettino medico viene trasmesso ai familiari da medici o infermieri in modo inevitabilmente stringato per telefono o attraverso sms. Comunicare poi su un cellulare la morte di un congiunto è considerato dai medici uno dei compiti più difficili. Come ha detto una psicoterapeuta che insieme ad altri colleghi ha lanciato il progetto “Accogliere le ferite di chi cura”, “c’è un fortissimo senso di colpa e d’impotenza dei medici che vedono morire le persone da sole, in corsia, senza il conforto dei familiari”[18].
Un’ altra testimonianza che ripropone oggi quanto Landsberg scriveva riferendosi agli operatori in tempo di guerra ci è data da un militare che ha vissuto in prima persona quell’ evento riportato da tutti i media, quando, nella notte tra il 18 e il 19 marzo scorso, un corteo di mezzi militari sfilò per le vie di Bergamo, trasportando – fuori regione, nei forni crematori di altre città – le salme dei deceduti a causa del coronavirus (il cimitero di Bergamo avrebbe riaperto solo il 18 maggio dopo oltre due mesi). In un post su Facebook il militare, che guidava uno dei mezzi adibito al trasporto delle bare, ci fa partecipi delle sue emozioni:
Tu guidi, scambi due chiacchiere con il collega alla parte opposta della cabina. Per un istante il silenzio rompe la tua routine, il tuo pensiero si posa su di loro, e realizzi che dentro quel camion non siamo in due, ma in sette…. cinque dei quali affrontano il loro ultimo viaggio… e sì…. l’ultimo. Ti rendi conto di essere la persona sbagliata, o meglio, qualcuno doveva essere al posto tuo, ma purtroppo non può… tocca a te…. ed è lì che senti addosso quella grande responsabilità, qualcosa che ti preme dentro, ogni buca, ogni avvallamento sembra una mancanza di rispetto nei loro confronti… poi arrivi lì, alla fine del tuo viaggio, dove ti ritrovi ad abbandonare ‘il tuo carico’, oramai fa parte di te, come se ti togliessero una parte di cuore, ed è li che cerchi di capire l’identità del tuo compagno di viaggio… cosa difficilissima[19].
L’assenza di funerali (sospesi in tutta Italia da marzo a maggio 2020) e di una adeguata sepoltura va a toccare uno dei punti fermi della civiltà. Il lutto “sano”, inteso come “pianto liberatorio”, è storicamente consumato attraverso rituali differenti ma accomunati dal bisogno di recuperare, da parte di chi “riesce” a elaborarlo, la propria individualità, la propria “presenza”. Va ricordato quanto scriveva De Martino:
Per grande che possa essere il dolore di una perdita, subito si impone a noi, nella piena stessa del dolore e con tanto maggiore urgenza quanto più siamo prossimi alla disperazione, il compito di evitare la perdita più irreparabile e decisiva, quella di noi stessi nella situazione luttuosa. Il rischio di non poter oltrepassare tale situazione, di restare fissati e polarizzati in essa, senza orizzonti di scena culturale e prigionieri di immaginazioni parassitarie costituisce la seconda decisiva morte che l’evento luttuoso può trascinarsi dietro[20].
Questo abbandonare il congiunto in mani anonime, e apprenderne in modo quasi impersonale la morte, avendo perso in taluni casi perfino le tracce del suo corpo, è vissuto come una sottrazione violenta, perfino come una sorta di “tradimento”, di “infedeltà” da parte del defunto stesso, qualora non venga ottenuto un “segno” di ‘riconoscimento’, quasi una “prova” della sua perdita. Landsberg, lo abbiamo visto, insisteva sull’importanza di recuperare un “clima caldo del morire” per riaprire un ‘canale’ di comunicazione.
Quando invece è mantenuto il contatto durante l’agonia del congiunto, nell’istante della morte il ‘fatto biologico’ lascia il posto a una nuova relazione.
È solo dal punto di vista ‘fenomenologico’ che l’annientamento prodotto dalla morte è un problema. Giacché rispetto al senso autentico della verità, l’annientamento dell’essente appare come errore, l’estremo errore (…), la follia estrema che avvolge la storia dell’Occidente”[21].
La posizione di Emanuele Severino lambisce solamente quella ‘spiritualista’ di Landsberg, ma la recupera sul piano di una “verità autentica” che non è il nulla, non è l’annientamento, ma l’eternità che appartiene a ogni essente:
questa penombra della stanza, questo ricordo della giornata trascorsa, queste nubi del cielo, ogni istante della storia del mondo e dell’uomo sono eterni perché sono questa penombra, questo ricordo, queste nubi, questi istanti. Sono eterni perché non sono un nulla[22].
Quando poi Severino scrive che “se l’interiorità altrui esiste, allora anch’essa è eterna in ogni sua fase”[23], e afferma che “ogni vita e ogni cosa che dopo il proprio calvario esce dall’esperienza, ‘può’ ritornare (…) – si dovrebbe dire anzi che ‘è necessario’ che ritorni”[24] -, queste parole, nel tempo della pandemia ci fanno riflettere su quanto il morire lontano dai propri cari non faccia che rafforzare, in chi sopravvive, quello che le fedi monoteiste ribadiscono ritenendo che “l’annientamento delle cose e dei viventi (…) costituisca quanto di più ‘evidente’ vi sia, di più manifesto, di più esperibile”[25].
Solo dopo aver provato per un attimo quel contatto con il ‘regno della morte’ in cui si trova ora il nostro congiunto, per poi subito rientrare in quello della vita nel dolore, l’altro può costituire per noi un nuovo punto di partenza per proseguire la relazione. Di certo questo vale per Landsberg, di certo per Severino (se pure in un diverso concetto di relazione). Non certo per Sartre, il quale ha ben presente l’altro, ma solo in un passaggio di consegne, dove “essere morto è essere in preda ai vivi”, i quali possono “disporre” di me assente.
Finché vivo posso sfuggire a ciò che sono per l’altro (…), posso smentire ciò che l’Altro scopre di me pro-gettandomi verso altri fini (…). Ma il fatto della morte (…) dà la vittoria finale al punto di vista dell’altro, trasportando il combattimento e la posta su un altro terreno, cioè sopprimendo improvvisamente uno dei due combattenti”[26].
Per Landsberg invece, la morte non è il “trionfo dell’altro su di me”, ma il trionfo dell’altro con me, il trionfo della relazione sulla morte.
Siamo naturalmente lontani dalle riflessioni di Heidegger, per il quale resta lapidaria l’alternativa tra “portare il fenomeno su un piano concettuale puramente esistenziale o rinunciare del tutto alla sua comprensione ontologica”[27]; di qui l’affermazione per cui “L’Esserci esiste già da sempre in modo tale che il suo ‘non ancora’ gli appartiene”[28] (l’essere-per-la-morte). Ma non è su questo che si fonda l’inconciliabilità con la posizione di Landsberg, il quale, centrandosi sulla ‘morte del prossimo’ (nel senso già delineato), considera che “laddove la persona ci è data, noi possiamo accedere al problema ontologico della sua relazione con la morte”[29]. Ciò che li distanzia è che per Heidegger la morte degli altri “ci fa vedere ‘oggettivamente’ la fine dell’Esserci”[30], e cioè “il decadere di un ente dal modo di essere dell’Esserci (o della vita) al non-Esserci-più”[31]. Heidegger fa anche riferimento al “prendersi cura” del defunto “nella forma di funerali, inumazione e culto della tomba”: ma resta il fatto che “in questo con-essere col morto, il defunto in quanto tale non ‘ci’ è più. Con-essere significa invece sempre un essere-assieme in un medesimo mondo. Il defunto ha lasciato il nostro ‘mondo’ e l’ha lasciato dietro di sé”[32]. Per Landsberg invece, attraverso l’esperienza della morte dell’altro “scopriamo che la nostra esistenza è un ponte tra due mondi”, e che “la possibilità di un cambiamento della nostra propria esistenza, in quanto Essere-per-la-morte che consegue a un’esperienza della morte di un nostro simile, si fonda nella possibilità dell’amore personale. Nessuno pretenderebbe che l’esperienza della morte del prossimo sia un equivalente dell’esperienza della mia morte, che farò io; ma il suo significato è così profondo in quanto appartiene essenzialmente alla mia esistenza personale e non al si”[33].
Le circostanze della pandemia hanno offerto, dolorosamente, l’opportunità di confrontarsi con temi come la distanza, la perdita, l’assenza; temi che vengono accolti, ora nella consapevolezza di un progetto esistenziale, ora in un confronto con l’altro che vada oltre la fine di un’esistenza, ora nella accettazione di una prospettiva nichilista in cui ogni essente è isolato dall’altro. In ogni caso, il pensiero filosofico deve insinuarsi negli interstizi più problematici del sé proprio quando gli spazi di riflessione sono schiacciati dalle contingenze.
[online 15.06.2020]
[1] P. L. Landsberg, Essai sur l’expérience de la mort, Paris, Éditions du Seuil, 1993 p. 32.
[2] Ibid.
[3] Ivi, p. 33.
[4] Ivi, p. 34.
[5] Ivi, p. 39.
[6] Ivi, pp. 40-41.
[7] Ivi, p. 36.
[8] Ivi, p. 37.
[9] Cfr. M. Scheler, Morte e sopravvivenza, tr. it. Brescia, Morcelliana, 2012.
[10] Landsberg, p. 38.
[11] Ivi, p. 47.
[12] Ivi, pp. 42-43. Il ‘recupero della fedeltà’ è anche alla base del pensiero di Gabriel Marcel, che parla di una “presenza permanente” che supera la morte per il vivente: “La nostra fedeltà si basa soltanto sulla adesione che manteniamo nei confronti di un’esistenza che non può assolutamente essere relegata nel mondo delle immagini” (G. Marcel, Giornale Metafisico, tr. it. Roma, Abete, 1966, p. 482).
[13] “La morte è un fatto contingente che, in quanto tale, mi sfugge per principio e dipende originariamente dalla mia fattità” (J. P. Sartre, L’essere e il nulla, tr. it., Milano, il Saggiatore, 1980, p. 655).
[14] Ibid.
[15] Ivi, p. 656.
[16] Si riferisce al testo di Ph. Ariés, Essais sur l’histoire de la mort en Occident, Paris, Éditions du Seuil, 1975 (tr. it. Storia della morte in occidente, Milano, Rizzoli, 1978).
[18] “Internazionale”, aprile 2020.
[20] E. De Martino, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria [1958], Torino, Bollati Boringhieri, 2002, p. 8.
[21] Ivi, pp. 156-157.
[22] E. Severino, Dispute sulla verità e la morte, Milano, Rizzoli, p. 598.
[23] Ivi, p. 125.
[24] Ivi, p. 102.
[25] Ivi, p. 113.
[26] Sartre, op. cit., pp. 653-654.
[27] M. Heidegger, Essere e tempo, tr. it., Milano, Longanesi, 1976, p. 295.
[28] Ivi, p. 297.
[29] Lansberg, op. cit., p. 32.
[30] Heidegger, op. cit.,p. 291.
[31] Ivi, p. 292.
[32] Ibid.
[33] Landsberg, op. cit., p. 42.
⸻ ALLEGATI