Crocifisso di San Marcello

«… RESASI INUTILE QUALUNQUE PRECAUZIONE, E DI NESSUNO
GIOVAMENTO I RIMEDJ TERRENI». IL CROCIFISSO DI SAN MARCELLO DALLA CONTRORIFORMA AL CORONAVIRUS*

David Armando

 

Nel capitolo XXXII dei Promessi sposi Manzoni descrive minuziosamente la processione guidata da Federico Borromeo che percorse tutti i quartieri di Milano l’11 giugno 1630 per implorare il soccorso divino nei confronti della peste ormai dilagante. È il punto culminante di una narrazione che è stata spesso richiamata nelle ultime settimane alla ricerca di analogie, vere o presunte, con l’esperienza del coronavirus: dall’iniziale negazione dell’evidenza dell’epidemia alla varietà dei pareri sulla sua origine e sulle sue cause, dall’inflazione delle false notizie alla tentazione di addossare la responsabilità della catastrofe all’azione malevola degli untori.

Scrittore cattolico e convinto ammiratore dell’azione pastorale del nipote di san Carlo, Manzoni non manca tuttavia di sottolineare l’immediata moltiplicazione dei casi di peste seguita alla concentrazione della folla dei devoti. Il suo potrebbe essere un monito per i fautori dei riti religiosi aperti al pubblico in piena pandemia, ma pone anche in luce, più in generale, come, al di là delle convergenze e delle influenze reciproche che la storiografia degli ultimi decenni è andata evidenziando, la risposta medico-scientifica alla malattia e al contagio e la sua lettura religiosa (come manifestazione del Male, punizione divina o richiamo alla conversione) abbiano rappresentato nel tempo due atteggiamenti ben distinti e spesso inconciliabili[1].

Una metafora di questa incompatibilità si può scorgere nella vicenda del crocifisso ligneo della chiesa di San Marcello assurto a protagonista della quaresima di pandemia soprattutto grazie alle immagini trasmesse in tutto il mondo dell’omelia tenuta da papa Francesco la sera del 27 marzo sul sagrato deserto di San Pietro. Quale che sia l’entità dei danni recati alla scultura trecentesca, oggetto una ventina di anni fa di un importante intervento di restauro[2], dall’esposizione alla pioggia che batteva la piazza, certo è che il ricorso al valore simbolico dell’oggetto sacro ha avuto la meglio sulle precauzioni dovute alla realtà materiale e al valore storico-artistico del manufatto umano.

La divaricazione fra i due approcci si può avvertire anche nel testo dell’omelia di Bergoglio[3]. Così come è attento a indicare le implicazioni sociali, economiche e ambientali della pandemia, il messaggio del pontefice annulla del tutto la sua dimensione propriamente sanitaria. Francesco apre con «medici, infermiere e infermieri» il lungo elenco delle «persone comuni» che «stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia», elenco che prosegue con gli addetti ai supermercati e culmina nei sacerdoti e nelle religiose, tutti convinti «che nessuno si salva da solo» non, come nell’appello brechtiano, da un senso umano di solidarietà fra gli oppressi[4], bensì dalla forza dello Spirito Santo. Il valore dell’azione di medici e sanitari è tutto racchiuso nella testimonianza di coraggio e generosità, di dedizione e sacrificio che essi offrono: il significato della prassi terapeutica, del curare, si dissolve così completamente all’interno di un generico prendersi cura; all’umanità non sono riconosciuti strumenti per contrastare la «tempesta inaspettata e furiosa» rappresentata dal contagio, di fronte alla quale, come gli apostoli nel lago di Tiberiade, essa può solo cercare pace in Dio e confidare nel suo intervento riconoscendo la propria impotenza. Si tratta quindi, avverte Francesco, di «fare appello alle nostre radici» e di «evocare la memoria dei nostri anziani», poiché lì – non in una terapia o in una profilassi – risiede l’«immunità necessaria per far fronte all’avversità».

In questa prospettiva l’esposizione mediatica del crocifisso di San Marcello, cui già una settimana prima dell’omelia del 27 marzo il pontefice aveva reso omaggio al termine di una passeggiata solitaria per le strade di Roma, e che in seguito ha contribuito alla scenografia della via crucis e del sabato santo, si rivela carica di connotazioni evocative iscritte nella sua storia e nella sua fama miracolosa. La sua prima apparizione pubblica risale, come è noto, all’agosto 1522, quando il crocefisso sopravvissuto tre anni prima a un incendio fu portato in processione per giorni attraverso la città invasa dalla peste. Il ricorso all’immagine sacra seguiva di pochi giorni un altro tentativo di fermare il contagio, che ebbe nelle fonti coeve molto maggiore risonanza, condotto da un mago greco mediante il sacrificio di un toro[5]; ancora nell’Ottocento l’erudito romano Gaetano Moroni descrive la processione come una forma di espiazione nei confronti di quel rito paganeggiante[6]. Ma più che in rapporto alla tradizione magica è nel contesto della rottura dell’unità cattolica avviata pochi anni prima da Lutero che si precisa il significato della processione del 1522. Negli anni in cui la Chiesa di Roma inizia a elaborare la sua risposta alla riforma protestante, la pestilenza rappresenta – come già era avvenuto al tempo della crociata contro gli albigesi – una metafora per designare il dissenso religioso che ha posto in discussione l’autorità del papato: è per combattere la «peste ereticale» che vent’anni dopo la processione del 1522 è fondata l’Inquisizione romana. E allo stesso contesto della Controriforma è strettamente legata l’altra icona alla cui venerazione Francesco ha affidato la risposta al contagio: la Maria Salus populi romani al cui intervento il papa inquisitore Pio V Ghislieri attribuì la vittoria cristiana sui turchi nella battaglia di Lepanto[7].

Nell’episodio del 1522 e nella sua tradizione successiva uno dei maggiori studiosi della storia religiosa del Cinquecento romano, Jean Delumeau, ha indicato un anello di passaggio fra la tradizione tardomedievale dei movimenti di disciplina alimentata dalla grande peste del Trecento, con le sue pratiche di mortificazione del corpo, e i fasti del cerimoniale rinascimentale e barocco[8]. La devozione penitenziale al crocifisso di San Marcello si istituzionalizzò immediatamente con la creazione di una compagnia dei disciplinati, promossa nel 1563 ad arciconfraternita[9]. È a questo sodalizio, uno dei più importanti dell’Urbe per numero e prestigio dei membri, fra cui figuravano cardinali ed esponenti della più alta aristocrazia, che risalgono le ricostruzioni a posteriori del “miracolo” del 1522. La descrizione inserita nella prima edizione degli statuti della compagnia è assai scarna e ne attribuisce l’iniziativa a un gruppo di devoti e ad «alcuni religiosi», sostenuti dal titolare della chiesa di San Marcello, il cardinale Guillén-Ramón Vich y Valterra; considerando «che l’opere pie con l’orationi, placano l’ira de Dio», essi avrebbero stabilito di recarsi «in processione à San Pietro & portando questa gloriosa Immagine per ciasch’un Rione, accompagnata da molti figliuoli scalzi gridando Misericordia», finché «per gratie & benignità dell’onnipotente Iddio, & de la Passione di N. Signore Iesù Christo, la peste passò»[10].

Se già questo testo vede la luce mezzo secolo dopo l’evento, bisogna aspettare altri centocinquant’anni perché, in occasione della conferma degli statuti da parte di Clemente XII, veda le stampe la descrizione della processione che è circolata negli ultimi tempi in rete senza indicazione di provenienza, come se si trattasse di una testimonianza dell’epoca[11]:

Nel MDXXII dell’anno primo di Adriano VI piangeva Roma afflitta dal flagello della peste, e resasi inutile qualunque precauzione, e di nessuno giovamento i rimedj terreni, dilatandosi il contagio da casa in casa, da rione in rione quasi tutti erano contrasegnati per la mortalità de’ suoi abitanti, si ricorse all’infinita clemenza di Giesù Crocefisso piissimo riparatore, e mediatore del genere umano: onde la chiara memoria del Cardinale de Vico Spagnuolo, uno de pii devoti della sopraddetta Santissima Immagine, ordinando una solenne Processione accompagnata da numerosa Nobiltà, Prelatura, ed ogni sorta di Cittadinanza Romana in abito di penitenza, e tra gli altri da molti innocenti fanciulli, che scalzi e coverti di cenere, ad una, ed alta voce interrotta solo da singulti, e sospiri di chi li accompagnavano, esclamavano Misericordia Santissimo Crocefisso: si portò la predetta Sagra Immagine sino alla Basilica Vaticana. Non era per anche terminata la descritta preghiera, né riposta nel suo luogo la medesima Immagine, che si osservò cessato il contagio, e resa Roma a Roma, che poco mancava a restar distrutta, perché desolata»[12].

Alla fine dell’Ottocento Mariano Armellini attribuì una descrizione simile all’erudito sacerdote Giovanni Antonio Bruzio[13], e – sia detto per inciso – l’impossibilità di consultare alla Biblioteca Vaticana i manoscritti seicenteschi del suo Theatrum Romanae Urbis è solo un esempio dei limiti che la quarantena impone a qualsiasi indagine storica, inclusa quella qui esposta, e di quanto sia lontana dal vero l’idea che ogni testo sia ormai disponibile in rete. Ma a prescindere dal problema delle fonti della nuova narrazione, in essa rispetto al precedente cinquecentesco scompare il riferimento alla peste come prodotto dell’ira divina ma si rafforza la rivendicazione della superiorità del ricorso all’intervento soprannaturale rispetto ai rimedi terreni, mentre la descrizione della folla penitente assume un rilievo e una coloritura maggiori – forse una proiezione all’indietro del cerimoniale barocco? – e si sottolinea il nesso immediato fra la processone e la fine dell’epidemia, che in realtà aveva continuato fino alla fine dell’anno a devastare Roma condizionando fortemente l’avvio del pontificato di Adriano VI[14].

La descrizione del prodigio ha anche la funzione di legittimare la tradizione, intesa a perpetuarne la memoria, di portare il crocefisso miracoloso a San Pietro il giovedì o il venerdì di Pasqua, in processioni di massa che almeno nel corso del XVI secolo conservavano la pratica dell’autoflagellazione. In occasione degli anni santi la cerimonia assumeva un carattere particolarmente solenne[15], che sembrerebbe aver perso con l’Unità d’Italia e riassunto sotto il fascismo[16]. Sarebbe interessante ricostruire l’origine dell’altra notizia diffusa in rete – e in contraddizione con la precedente – che attribuisce al sindaco Nathan il divieto del trasporto pubblico del crocifisso in Vaticano nel giubileo del 1900[17]: l’imprecisione clamorosa che essa contiene, giacché Nathan non fu primo cittadino della Capitale che a partire dal 1907, appare rivelatrice del valore militante ancora attribuito all’immagine, in contrapposizione alle sfide della secolarizzazione che agli inizi del secolo scorso furono sintetizzate nella presenza, al governo della città del papa, di un sindaco ebreo, massone e anticlericale.

L’ultima esposizione dell’immagine in Vaticano prima del coronavirus risale a uno dei momenti più significativi – e discussi – del Giubileo del Duemila: la giornata del perdono celebrata il 12 marzo da Giovanni Paolo II per purificare la memoria della Chiesa e confessare, in segno di riconciliazione, i peccati commessi dai cristiani[18]. Ma nel secolo scorso la sua presenza ha assunto anche valori più in linea con le radici controriformistiche del suo culto. È successo nella domenica di passione di un altro anno santo, il 1950, quando Pio XII lo chiamò a testimone di una veemente omelia contro i peccati del mondo moderno, riassunti nella contrapposizione fra una «concezione materialistica del mondo» e il «retaggio inevitabile ma fecondo» che assumono per il cristiano «la rinunzia, la privazione, la sofferenza»[19]. Quell’omelia costituiva il preludio dell’enciclica Humani generis, che pochi mesi dopo avrebbe condannato severamente gli sviluppi moderni non solo della teologia ma anche delle scienze e della filosofia, a partire dall’evoluzionismo darwiniano e dal materialismo marxista, ma anticipava anche il discorso dell’anno successivo al convegno delle famiglie cattoliche, in gran parte dedicato alla condanna del controllo delle nascite e in particolare dell’aborto, incluso quello terapeutico[20]. In quest’ultimo testo papa Pacelli ribadiva l’equivalenza fra «la diretta occisione del bambino prima, durante e dopo il parto», qualificabile in ogni caso come un attentato «alla vita dell’innocente». Quest’ultima formula è ripresa quasi letteralmente da Francesco nel finale dell’omelia della notte di Pasqua che ha concluso il ciclo liturgico della settimana santa[21]. Qui l’anatema nei confronti delle interruzioni di gravidanza è accostato senza mezzi termini alla condanna della guerra e della produzione di armi, contrapposta a sua volta a un appello a produrre pane e provvedere ai bisogni di «di chi è privo del necessario» che, nella sua allusione al flagello della fame, completa una triade che richiama alla mente la simbologia tradizionale dei cavalieri dell’Apocalisse, con l’immagine dell’aborto che si sovrappone implicitamente a quella, tornata minacciosa, della peste.

I simboli portano con sé il peso della loro storia, tanto più in un’istituzione più che millenaria come la Chiesa. Il bagaglio di valori che il crocifisso ligneo di San Marcello veicola rimanda alla mortificazione del corpo, al rifiuto della secolarizzazione, alla superiorità della fede sulla scienza affermata dal miracolo taumaturgico; non è un caso che in occasione della liturgia pasquale anche settori tradizionalisti della Chiesa ostili a papa Bergoglio ne abbiano celebrato la tradizione, attribuendogli il trionfo non solo sulla «peste materiale» del 1522 ma anche su quella «spirituale» del Novecento[22]. Ma al di là della vicenda specifica la sua ricostruzione, che sarà da riprendere quando sarà possibile tornare a consultare le fonti, pone il problema più generale della ricchezza e complessità dei segni e dei significati associati nel corso della storia all’universo dell’epidemia e della loro capacità di orientare, più o meno inconsapevolmente, la nostra percezione dell’esperienza attuale.

[online 24/04/20]

 

* Una prima versione di questo articolo è stata pubblicata il 12 aprile 2020 nella rubrica Storie virali dell’“Atlante” Treccani: http://www.treccani.it/magazine/atlante/cultura/Storie_virali_La_croce_di_Bergoglio.html .
[1] M.P. Donato, L. Berlivet, S. Cabibbo, R. Michetti, M. Nicoud (a cura di), Médecine et religion: compéti­tions , collaborations, conflits (XIIe-XXe siècles) , Paris – Roma, 2013.
[2] B. Fabjan, C. Bertorello, A. Lo Monaco, E. Corona, Il restauro del Crocifisso di San Marcello a Roma. Conservazione ed esigenze di culto , in “Kermes”, 44, 2001, pp. 27-40.[3] http://www.vatican.va/content/francesco/it/homilies/2020/documents/papa-francesco_20200327_omelia-epidemia.html .
[4] B. Brecht, Nessuno o tutti (1934).
[5] M. Sanudo, I Diarii, a cura di F. Stefani, G. Berchet e N. Barozzi, vol. XXXIII, Venezia, 1892, coll. 402-403; A. Grazioli, Discorso di peste … nel quale si contengono utilissime speculationi intorno alla natura, cagioni, e curatione della peste, con un catalogo di tutte le pesti più notabili de’ tempi passati , Venezia, 1576, p. 130; L. von Pastor, Storia dei papi dal Medioevo, vol. IV, parte II, Roma, 1929, p. 44.
[6] G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, vol. XLI, Venezia, 1846, pp. 306-307
[7] M. Caffiero, Religione e modernità in Italia (secoli XVII-XIX), Pisa-Roma, 2000, pp. 28-30.
[8] J. Delumeau, Une confrérie romaine au XVIe siècle: l’«Arciconfraternita del SS.mo Crocefisso in S. Marcello» , in “Mélanges de l’École française de Rome”, LXVI, 1951, pp. 281-306; cfr. Il movimento dei Disciplinati nel settimo centenario del suo inizio , Perugia, 1962.
[9] Oltre all’articolo di Delumeau cfr. A. Vannugli, L’Arciconfraternita del SS. Crocifisso e la sua cappella in San Marcello , in “Ricerche per la storia religiosa di Roma”, 5, 1984, pp. 420-443; K.M. Albinsky, Art, ritual, and reform: the Archconfraternity of the Holy Crucifix of San Marcello in Rome , Graduation thesis, Rutgers University, New Brunswick (N.J.), 2017 (doi:10.7282/T32N55DM).
[10] Statuti, et ordini della venerabile Archicompagnia del Santiss. Crocefisso in Santo Marcello di Roma con l’origine d’essa , [Roma, 1565], pp. non num.
[12] Statuti della Ven. Archiconfraternita del SS. Crocifisso in S. Marcello di Roma confermati in forma specifica dalla Santità di N. S. Papa Clemente XII l’anno I del suo pontificato , Roma, 1731, p. 7.
[13] M. Armellini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Roma, 1891, p. 257.
[14] M. Sanudo, I Diarii, cit., pp. 461, 474, 477, 493; L. von Pastor, Storia dei papi dal Medioevo, cit., pp. 46, 66-70.
[15] M.A. Visceglia, La città rituale. Roma e le sue cerimonie in età moderna, Roma, 2002, p. 259.

⸻ ALLEGATI